Cosa scelgo oggi

Non so cosa avrei scelto se avessi saputo che sarebbe stato come avere una finestra sul petto, con il cuore in bella vista sul davanzale; o se qualcuno mi avesse detto che sarebbe stato come stare a penzoloni sul bordo di un burrone. Nessuno ti prepara. Nessuno ti spiega che cosa significa aprirsi veramente con un altro essere umano. Nessuno ti dice che inizierai a sentirti nuda, esposta, indifesa. Non so se, tornando indietro con questa consapevolezza, sceglierei di nuovo la stessa strada invece che restare nel mio guscio.

Tutti quegli tsunami nel cuore, tutte quelle capriole nello stomaco erano solletico in confronto alla sensazione di essere completamente senza maschere, senza filtri. Essere te senza scudi, essere te senza l’armatura che ti ha protetta. Quella stessa armatura che però ti ha schermata anche dalla bellezza di un sentimento vero, dalla poesia di due corpi che si toccano il cuore a vicenda.

Nessuno ti dice che sarà tanto bello quanto terrificante, che ti attrarrà come acqua nel deserto e allo stesso tempo ti farà  venire il desiderio di scappare su un altro pianeta. E soprattutto nessuno ti dice che ci saranno momenti in cui perderai completamente l’equilibrio e sarà davvero dura ritrovare il tuo centro in mezzo alla bufera che avrai dentro.

Non so cosa avrei scelto se avessi saputo tutto questo. Ma so cosa scelgo oggi. Cosa ho scelto ieri. Scelgo di non fuggire, di provare, di inciampare e rialzarmi, perché ciò che mi aveva ingabbiato il cuore mi ha anche allenato alla resilienza e alla lotta. Perché, proprio come i duri colpi di uno scalpello sul marmo sono ciò che lo trasformano in un’ opera d’arte, la sofferenza mi ha plasmato in una combattente.

Amore eterno

El universo juega conmigo a la gallinita ciega. Mientras giro en círculos, me susurra indicaciones incomprensibles.

Me regala poemas con olor a futuro y un momento después me quita los suspiros.

El universo se burla de mí. Me rasga el pecho para plantar semillas de felicidad que no crecerán.

Oh sí, tiene una extraña forma de amarme, es verdad. Pero al menos estoy segura de que será amor eterno


L’Universo gioca con me a moscacieca. Mentre giro su me stessa mi sussurra indicazioni incomprensibili.

Mi regala poesie che profumano di futuro e un istante dopo mi strappa via i sospiri.

L’Universo si prende gioco di me. Mi squarcia il petto per piantare semi di felicità che non cresceranno.

Eh si, ha uno strano modo di amarmi, è vero. Ma almeno sono certa che sarà amore eterno.

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Que todo se rompa..

“Suelta”.
Mientras lloraba como una niña.
“Deja que todo se rompa”.
Mientras la desesperación se apoderaba de mí.
“Deja que se vayan”.
Mientras el dolor del abandono me convertía en una cáscara vacía.
“Suelta el control”.
Mientras intentaba agarrarme a ellas para que no se fuesen.
“Deja que todo se derrumbe”.
Mientras pedía perdón por algo que no había hecho.
“Deja que su ausencia abra espacio para algo nuevo”.
Mientras mendigaba amor.
“Suelta. Suelta mi amor”.

Mientras mi corazón se rompía, mi alma me hablaba.
Por fin, la escuché.

Come decidere di essere felici

Cosa significa “la felicità è una decisione”? Sembra una di quelle frasi fatte che la gente pubblica sui social per sembrare saggia, ma non lo è. La confusione sorge dal fatto che manca tutta la spiegazione che c’è dietro: la felicità è la decisione di essere grata per quello che hai invece di lamentarti per quello non c’è. Decidere di accettare la fine di un qualsiasi tipo di relazione invece di ostinarsi a trattenere delle persone che non vogliono rimanere. Decidere di custodire i bei ricordi invece di rimuginare sulle situazioni spiacevoli. Decidere di fare del proprio meglio per raggiungere i tuoi obiettivi invece di invidiare chi già è arrivato. In sostanza è decidere di distogliere la propria attenzione dalla mancanza e di coltivare la gratitudine. E anche decidere di lasciar fluire la tristezza, la rabbia, la paura: in pratica smettere di raccontare e raccontarsi la storia legata a queste emozioni e lasciarle essere, sentirle senza giudizi e senza narrativa (“perché lei ha fatto questo”, “ma se non fosse successo quello”, ecc.). Sentirle con il corpo e non riviverle con la mente.

Forse..

Forse quando tutto questo sarà finito, tornando alle nostre vite ci sembreranno più belle di prima. Forse andare a fare una passeggiata non sembrerà più così scontato e ci abbracceremo anche di più.

O forse no.

Forse se non impariamo ad essere felici qui e ora non lo saremo nemmeno con più libertà e più compagnia. Forse se non impariamo ad amare le nostre vite adesso, in quarantena e senza tutte le mille maniere di evadere da esse, non le ameremo mai.

 

 

 

A te che non sei solo un numero..

Ti prometto che quando tutto questo finirà non dimenticherò che dovrò onorare la mia vita anche per te. Non dimenticherò di essere grata per ogni respiro, per ogni passeggiata, per ogni abbraccio. 

Ma soprattutto ti prometto che non dimenticherò la lezione che abbiamo dovuto pagare con il prezzo più alto, lotterò affinchè la tua morte non sia stata vana e tutto questo dolore abbia un senso più grande. 

Sento di avere il dovere morale di trasformare in occasione questa enorme perdita. E così pretendo che per ogni abbraccio perduto questo virus ci restituisca un pezzo di cielo più pulito e lotterò affinchè rimanga tale. Per ogni lacrima versata pretendo un pezzo di mare libero dalla plastica e un animale libero dalle gabbie. E soprattutto pretendo per ogni morte, migliaia di vite salvate dalla guerra e dalla fame. 

Un giorno racconteremo ai nostri nipoti di come una guerra contro un nemico invisibile abbia unito tutti i popoli della terra, di come la natura ci abbia mostrato i paradossi di un sistema economico che come un cancro stava uccidendo il nostro stesso pianeta e poi racconteremo di come grazie al sacrificio di molti, l’umanità si sia salvata dall’estinzione.

Ti prometto che non lascerò che l’eredità di questo virus sia solo morte e dolore, non smetterò di lottare finché non potremo scrivere nei libri di storia che questa tragedia ci ha restituito il vero senso della vita.

Come una ragazza innamorata…

Cara amata Italia, 

ti scrivo da lontano anche se mai come in questo momento ti ho sentito così presente nel mio cuore. Mi trovavo in Spagna per fare un dottorato (e per scappare da te, lo ammetto) quando è scoppiata l’epidemia e sono rimasta chiusa fuori. Molti hanno pensato che fosse stato un bene per me ma io mi sentivo già dentro uno di quei film dove la protagonista conosce il futuro e nessuno le crede. Ho previsto tutto quello che è successo, perché lo avevo già visto succedere in Italia. Ho provato a spiegare – senza creare inutili allarmismi – ciò che sapevo. Per esempio che sarebbe bastato ridurre i momenti di incontro o fare più tamponi per evitare la rapidità del contagio che ha colpito l’Italia, solo che nessuno mi ha ascoltato. Non volevano sapere (in questo, ahimè, italiani e spagnoli si somigliano molto). Adesso anche qui stiamo per toccare il picco dei contagi e si diffonde la paura. Solo un’altra volta nella mia vita mi sono sentita come se non sapessi bene da dove arrivava il pericolo. E’ stato in Africa. Solo che lì le malattie di cui avevo paura arrivavano per la maggior parte dalle zanzare, dal cibo, dall’acqua, non dalle persone. E quando alla fine mi sono ammalata è stato il calore umano la mia più grande risorsa. I sentimenti che provavo per le persone conosciute lì mi facevano sentire invincibile, così tanto che decisi di lasciare la mia famiglia all’oscuro. Anche oggi lo farei se mi dovessi ammalare, ma stavolta non perché mi sento invincibile. Solo perché più del coronavirus mi spaventa l’idea che i miei genitori si sentano di nuovo impotenti di fronte alla mia malattia. Non ho mai visto il terrore negli occhi di mio padre prima di ammalarmi di cancro, nemmeno quando piangeva tutti i giorni mentre ero in Africa. E non ho mai visto mia madre rimpicciolirsi tanto. E infatti quando mi dissero che dovevano operarmi di nuovo mentì e raccontai loro che era tutto finito. E sono pronta a mentire di nuovo per proteggerli, solo che questa volta se dovesse succedere non avrò al mio fianco bambini che amo con tutto il cuore o amici e compagni di fede che sono disposti a rinunciare al loro tempo per accudirmi. Ed è per questo che vi scrivo. Perchè ho capito che la gravità di questo virus è che ti priva dell’unica cosa che ci rende invincibili: l’amore. Eppure, paradossalmente è proprio grazie a questo virus che ho riscoperto l’amore per la mia gente e la stima, che per troppo tempo ho creduto di aver perso per sempre. E ho capito anche che questo virus è il nostro banco di prova: è arrivato il momento di decidere che Italia vogliamo essere. Decidere se vogliamo essere l’Italia che evade le tasse, quella degli scaltri, di chi in un momento di crisi alza i prezzi dei beni di prima necessità, dei menefreghisti, l’Italia che chiude i porti e le porte in faccia a chi ha bisogno. Oppure se vogliamo essere l’Italia che in tempi difficili raccoglie fondi per i propri ospedali, che offre servizi gratuiti e fiori per le strade, che intona concerti nei balconi e fa la spesa per i più deboli. L’Italia bella, ma bella davvero. E dobbiamo decidere su cosa vogliamo puntare, che cosa vogliamo coltivare.  Ed è per questo che vi scrivo, proprio come lo farebbe una ragazza che scopre dopo molto tempo di essere ancora innamorata della persona che l’aveva tradita; e sapendo che è l’altra persona a dover decidere se vuole impegnarsi a coltivare la parte migliore di sé oppure no, quella ragazza può solo dirle che è disposta a tornare a fidarsi di lei. 

Io sono disposta a fidarmi ancora di noi. E voi?


Querida Italia,

Te escribo desde lejos aunque nunca como en este momento te he sentido tan presente en mi corazón. Estaba en España para hacer un doctorado (y para huir de ti, lo admito) cuando estalló la epidemia y me quedé cerrada fuera. Mucha gente pensó que era bueno para mí, pero yo me sentía como en una de esas películas donde la protagonista conoce el futuro y nadie le cree. Predije todo lo que sucedió, porque ya lo había visto suceder en Italia. Traté de explicar, sin crear un alarmismo innecesario, lo que sabía. Por ejemplo, que hubiera sido suficiente reducir los momentos de reunión o hacer más pruebas para evitar la rapidez del cotagio que golpeó a Italia, solo que nadie me escuchó. No querían saber (en esto, por desgracia, los italianos y los españoles son muy similares). Ahora, aquí también estamos a punto de tocar el pico de las infecciones y el miedo se está extendiendo. Solo en otra ocasión de mi vida sentí que no sabía exactamente de dónde venía el peligro. Fue en África. Excepto que las enfermedades que temía allí provenían principalmente de mosquitos, comida, agua, no personas. Y cuando finalmente me enfermé, el calor humano era mi mayor recurso. Los sentimientos que sentía por las personas que conocí allí me hicieron sentir invencible, tanto que decidí no decir nada a mi familia. Incluso hoy lo haría si me enfermara, pero esta vez no porque me sienta invencible. Solo porque más que el coronavirus me asusta la idea de que mis padres se sientan impotentes nuevamente ante mi enfermedad. Nunca vi el terror en los ojos de mi padre antes de enfermar de cáncer, incluso cuando él lloraba todos los días mientras yo estaba en África. Y nunca he visto a mi madre volverse tan pequeña. Y, de hecho, cuando me dijeron que tenían que operarme nuevamente, mentí y les dije que todo estaba bien. Y estoy lista para mentir nuevamente para protegerlos, solo que esta vez si sucede, no tendré niños a mi lado a quienes amo con todo mi corazón o amigos y compañeros de fé que estén dispuestos a renunciar a su tiempo para cuidarme. Y es por eso que te escribo. Porque entendí que la gravedad de este virus es que te priva de lo único que nos hace invencibles: el amor. Sin embargo, paradójicamente, es precisamente gracias a este virus que redescubrí el amor por mi gente y la estima, que durante demasiado tiempo creí que había perdido para siempre. Y también entendí que este virus es nuestro examen: ha llegado el momento de decidir qué Italia queremos ser. Decidir si queremos ser la Italia que evade los impuestos, aquella de los astutos, de los que en un momento de crisis elevan los precios de los bienes básicos, de los indiferentes, la Italia que cierra los puertos y las puertas a los que tienen necesidad. O si queremos ser la Italia que en tiempos difíciles recauda fondos para sus hospitales, ofrece servicios gratuitos y flores en las calles, canta conciertos en los balcones y hace las compras para los más débiles. Una Italia hermosa, pero realmente hermosa. Y tenemos que decidir en qué queremos centrarnos, qué queremos cultivar. Y es por eso que te escribo, como lo haría una chica que descubre después de mucho tiempo que todavía está enamorada de la persona que la había traicionado; y sabiendo que es la otra persona la que tiene que decidir si quiere comprometerse a cultivar la mejor parte de sí misma o no, esa chica solo puede decirle que está dispuesta a volver a confiar en ella.
Todavía estoy dispuesta a confiar en nosotros. ¿Y vosotros?

Una vez al mes, como la regla

 

Dos días al mes. Por lo general no más de dos, pero a veces incluso cuatro son los días en que me limpio los ojos y el corazón, llorando todo lo que no puedo llorar durante el resto del tiempo. Siempre ocurre con cierta regularidad, como por la regla o las fases lunares. Necesito hacerlo. Es como si por cada noticia, imagen, recuerdo del sufrimiento del mundo se formara un pequeño nudo dentro de la garganta, que crece un poco más cada día hasta que llega el momento en que tengo que vomitarlo, gritando y llorando. Siempre ha sido así, desde el primer momento que tengo recuerdos de mí. Solo que pronto aprendí que la empatía, la sensibilidad eran algo de lo que avergonzarse, como la menstruación. Y así, durante años me consideré frágil, una débil, me daba vergüenza sentir tanto el dolor de los demás hasta hacerlo mío. Y por eso también me enfermé.

Hoy, sin embargo, cuando llega el momento en que tengo que limpiar el alma del dolor, lo acojo como parte de la vida, como una forma de honrar a los seres vivos que han sufrido o muerto. Y es también mi forma de pedir perdón, por no haber encontrado aún la forma más efectiva de crear el mundo que quería para ellos.

 


Due giorni al mese. Di solito non più di due ma certe volte anche quattro sono i giorni in cui mi pulisco gli occhi e il cuore, piangendo tutto quello che non posso piangere durante il resto del tempo. Avviene sempre con una certa regolarità, come per il ciclo o le fasi lunari. Ho bisogno di farlo. E’ come se ad ogni notizia, immagine, ricordo della sofferenza del mondo si formasse un piccolo nodo dentro la gola, che cresce ogni giorno un po’ di più finchè arriva il momento in cui lo devo vomitare fuori, gridando e piangendo. E’ così da sempre, dal primo momento in cui ho memoria di me. Solo che presto ho imparato che l’empatia, la sensibilità sono qualcosa di cui vergognarsi, come delle mestruazioni del resto. E così per anni mi sono considerata fragile, una debole, mi sono vergognata di sentire così tanto il dolore degli altri da farlo mio. E mi sono ammalata anche per questo. 

Oggi, invece, quando arriva il momento in cui devo ripulire l’anima dal dolore,  lo accolgo come parte della vita, come un modo per onorare gli esseri viventi che hanno sofferto o sono morti. E anche il mio modo per chiedere perdono, per non avere ancora trovato il modo più efficace per creare il mondo che avrei voluto per loro. 

Dedicato

Esto es para aquellos que no han conseguido lo que quieren, pero nunca lo dejan de intentar.
Para aquellos que sienten demasiado o demasiado poco.
Para los que tienen miedo al miedo.
Para los que se miran dentro y viendo el vacío intentan encontrar su significado.
Esto es para aquellos que buscan el equilibrio entre el blanco y el negro.
Para los que se aman amando y
para aquellas personas que no pueden dejar de amar a los demás más que a ellas mismas.
Para aquellos que sueñan con hacer sueños que nunca soñaron.
Para los que siempre dan, aunque no tengan nada.
Para aquellos que encuentran el coraje solo para animar a los demás.
Esto es para aquellos que te hacen sentir “en casa”, incluso sin tenerla. Y para aquellos que en ningún lugar se sintieron en casa.
Esto es para aquellas personas que bailan ligeras aunque estén cargadas de recuerdos dolorosos.
Para aquellos que vivieron en la oscuridad y ahora son un faro.
Para aquellos cuyos corazones están llenos de grietas.
Y para aquellos que esas grietas las llenan de amor.
Esto es para aquellos que resisten. Para los que flaquean.
Para los que corren para no pensar.
Para los que van siempre hacia delante para no volver atrás.
Y para aquellos que vuelven atrás para entender y perdonar.
Esto es para aquellos que lo intentan para aprender.
Para aquellos que escriben para ganarse la vida y para aquellos que viven para escribir.
Para aquellos que tienen fe en sí mismos, incluso cuando creen no tenerla.
Para aquellos que quieren cambiar el mundo cambiándose ellos mismos.
Estas palabras son un “gracias” para vosotros, para que os veáis a través de mis ojos. 


Questa e’ per chi non riesce mai
ma non smette di tentare.
Per quelli che sentono troppo o troppo poco.
Per chi ha paura della paura.
Per chi si guarda dentro, vedendo il vuoto
e scava fra i ricordi per trovarne il senso.
Questa è per quelli che cercano l’equilibrio
fra il bianco e il nero.
E’ per chi si ama ad amare e
per chi non riesce a non amare gli altri più di se stesso.
Questa è per chi sogna sogni che non ha mai fatto.
Per chi si butta in acqua per non annegare.
Per chi non si risparmia mai, anche se non ha niente.
Questa è per chi è “casa” anche senza averla mai avuta. 
E per chi a casa non si è mai sentito.
Per chi trova il coraggio per incoraggiare gli altri.
Per quelli che cantano senza saperlo fare
e per quelli che suonano note che non conoscono.
Per chi balla con leggerezza nonostante il peso dei ricordi. 
Per chi viveva al buio e adesso è un faro.
Per chi ha il cuore pieno di solchi
e per chi quei solchi li riempie di amore.
Questa è per chi resiste. Per chi arranca.
Per quelli che vanno avanti per non tornare indietro
e per chi torna indietro per capire e perdonare.
Per chi corre per non pensare.
Questa è per chi prova per imparare.
Per chi scrive per vivere e per chi vive per scrivere.
Per chi ha fede in se stesso anche se non lo sa.
Per chi vuole cambiare il mondo, cambiando se stesso.
Questa è per me, per dirmi “mi amo”.
Questa è per te, per vederti con i miei occhi.
Questa è per voi, per ringraziarvi di essere il mio scoglio.

 

Oración informal/Preghiera informale

Querido Universo (o Ley Mística / Dios / Alá / campo de energía / fuerza vital / etc.) por favor, escúchame.

Quiero un trabajo pero no sé cómo ni dónde. Confío en ti para la elección, solo permíteme poner mis habilidades al servicio de quién más lo necesite.

Quiero también una familia. Incluso en este caso no tengo preferencia: un compañero o una compañera (o ambos), hijos adoptivos o no, hazlo un poco como quieres. Solo te pido que me uses para dar amor a los que no son amados, esperanza a los que se sienten impotentes y confianza a los que se sienten inútiles.

Para terminar, quiero un último favor: la paz en el mundo. Sobre como y cuando realizarla, sabrás tú –  mucho mejor que yo – qué hacer, pero dame la fuerza para luchar contra la injusticia y la compasión para perdonar a los que siembran el odio. Y ya que estás ahí, dame el coraje para iluminar mi oscuridad y la sabiduría para entender como ser el cambio que quiero ver en el mundo.

No te he pedido demasiado, ¿qué te parece?

Mientras tanto, te lo agradezco de antemano y muchos saludos.

Amén


Caro Universo (o Legge Mistica/Dio/Allah/campo energetico/forza vitale/ecc.) ti prego, ascoltami.

Voglio un lavoro ma non so né come, né dove. Mi affido a te per la scelta, permettimi solo di mettere le mie capacità a servizio di chi ne ha più bisogno.

Voglio anche una famiglia. Anche in questo caso non ho preferenze: un compagno o una compagna (o entrambi), figli adottivi o no, fai un po’ te. Ti chiedo solo di usarmi per dare amore a chi non è amato, speranza a chi si sente impotente e fiducia a chi si sente inutile.

Infine, voglio un ultimo piccolissimo favore: la pace nel mondo. Sui tempi e i modi saprai tu – molto meglio di me – cosa fare, però dammi la forza per lottare contro le ingiustizie e la compassione per perdonare chi semina odio. E visto che ci sei, dammi anche il coraggio per illuminare la mia oscurità e la saggezza per capire come essere il cambiamento che voglio vedere nel mondo.

Non mi sembra di chiedere troppo, che ne pensi?

Intanto ti rinfrazio anticipatamente e tanti cari saluti.

Amen.

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La prima possibilità

Vorrei sapere chi ha detto che tutti si meritano una seconda possibilità. E soprattutto vorrei sapere perché? sulla base di quali evidenze empiriche?
In 33 anni di esperimenti, non c’è stata una solo volta in cui io non mi sia pentita – e anche amaramente – di aver dato una seconda possibilità. Per non parlare poi, del fatto che esistono anche persone meravigliose che non ne hanno mai avuto bisogno, che hanno centrato il bersaglio al primo colpo.

Quindi penso proprio che da ora in poi questo è quello che dirò ad ogni nuova persona che entrerà nella mia vita:
“Benvenuta nel mio mondo! Se saprai accogliere ciò che ho da darti, e apprezzarlo, non smetterò mai di farlo. Ma questa è la tua prima e unica possibilità. Giocatela bene. Io sono come un tramonto incredibilmente colorato e mozzafiato, ma se tieni gli occhi chiusi mi dispiace, te lo sei perso”.

Cinque cose che ho capito in cinque mesi

Tutto nella vita ti nutre o ti insegna qualcosa. Tutto. Anche quello che fa male.

La mia ultima dolorosa sconfitta nel campo di battaglia più spietato (ovvero l’amore… ebbene si, non è la malattia, credetemi!),  non fa eccezione.

In poco meno di cinque splendidi e complicati mesi, ho capito alcune verità che spero di tramandare alle mie figlie.

Primo: ho capito che certe volte il principe azzurro esiste per davvero, ma anche lui ha i suoi BEI DEMONI come tutti!

Secondo: ho capito che anche se dai il massimo e ti impegni al 100% non è detto che questo sforzo venga apprezzato o venga eguagliato dallo sforzo dell’altra persona. Sei tu che devi apprezzarlo e sei tu che devi trasformarlo in qualcosa di prezioso per il tuo percorso di crescita.

Terzo: ho capito che molto spesso iniziare una relazione con un uomo è come presentare il tuo curriculum alla Coop: se sei “troppo qualificata” devi mentire e tendere al ribasso. Ma solo se vuoi accontentarti, se no fai come me e resta single. O cercati una donna.

Quarto: ho capito che in moltissimi casi quello che gli altri fanno non ha nulla a che vedere con te, ma con loro stessi. Non prenderla sul personale, come dice il mio amico Ste.

Quinto: ho capito che quando i tuoi bisogni non vengono mai ascoltati né dalle persone a te care né da te stessa, ti può capitare di ammalarti per farti ascoltare e ascoltarti.

Ed è quello che successo a me, però ho anche capito che non voglio mai più che sia una malattia a rendermi visibile a qualcuno a cui voglio bene, e affinché quel qualcuno pensi che è arrivato il momento di mettermi al giusto posto nella sua vita, senza darmi per scontata.

Ho capito che non voglio essere urgente, voglio essere importante!

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Quel cammino tra l’inizio e la fine. Di nuovo.

Non mi piacciono gli addii, i finali e i “vissero felici e contenti”. Non amo neanche i nuovi inizi, i cambiamenti o le grandi rivoluzioni.

Mi piace cosa sta in mezzo. Il cammino tra l’inizio e la fine. Adoro la quotidianità, la routine. Il sentirmi a casa. Mi interessa più il processo che il risultato.

Ho sempre fatto il salto quando era necessario buttarsi. Spicco il volo ogni volta che serve ma non vedo l’ora di atterrare e tenere di nuovo i piedi ben piantati per terra. Le trasformazioni mi spaventano. Mi terrorizza quello che non conosco. Eppure non mi sono mai tirata indietro.

In trentun anni ho vissuto in otto città, in quattro nazioni di tre continenti diversi. Ho fatto dieci traslochi. Ho cambiato facoltà due volte. Lavoro otto. Ho avuto diversi fidanzati e fidanzate. Ho convissuto per sei anni e ho scampato il matrimonio per un pelo. Mi sono buttata con il paracadute da quindici mila piedi e sono rotolata da una collina, dentro una palla di gomma. Ho visitato quasi venti paesi e ho assaggiato ventitré tipi di cucina diversi. Sono stata cristiana per quattordici anni, agnostica per dieci e sono buddista da sette. Ho imparato tre lingue diverse dalla mia e ho iniziato a studiare canto e chitarra a trentun anni.

Ho fatto e cambiato così tante cose che mi sembra di aver vissuto mille vite. Chi mi conosce non può credere che io abbia paura dell’ignoto; che anche io abbia difficoltà a lasciare la mia zona di comfort. Eppure è proprio così. Ma allora perché sono riuscita a fare tutto quello che ho fatto? Perché ho abbandonato le mie certezze e sono riuscita a vincere la paura di perdere tutto? La paura di sbagliare, di cambiare, di stare da sola?

La verità è che ho avuto un unico vantaggio nella mia vita. Un unico espediente che mi ha portato ad uscire dal guscio protettivo dell’abitudine e della familiarità: la sofferenza.

Si, è stata la grande sofferenza che ho provato fin da piccola a spingermi alla ricerca continua di me stessa. Il vuoto che ho nel petto da quando ho memoria di me è stato il motore più potente della mia rivoluzione umana e lo è tutt’ora.

La depressione di cui ho sofferto in adolescenza è stata la mia via d’uscita da un percorso già scritto per me, dalla società in cui ero cresciuta: un diploma, forse una laurea – giusto per poterla sfoggiare con i compaesani – e certamente un lavoro vicino casa fino al matrimonio con il primo amore, coronato da una o più gravidanze. Questo era il futuro che mi aspettavo. Che tutti si aspettavano da me. Il futuro che credevo di volere. Ma la vita aveva altro in serbo per me.

Solo che è difficile abbandonare le aspettative, i sogni da bambina e tutto ciò che ci è familiare. E’ dura percorrere strade non asfaltate, spesso piene di dossi e pericoli. Scegliere il cammino più difficile non è semplice. Allora, proprio come una madre compassionevole sgrida il figlio quando sbaglia, la vita mi ha dato una bella spinta. Una nuova partenza, azzerando tutto. Si perché come dice una mia cara amica, la depressione è uno zero dell’anima. O di sicuro lo è stato per me.

Da quello zero ho ricostruito tutto. Ho ricostruito me stessa, i miei sogni e il mio cammino. E per farlo ho dovuto fare il mio primo salto nel vuoto, nel mio personale buco nero. Il primo viaggio è stato il più importante: quello alla ricerca di me stessa, per guardarmi dentro e guardare in faccia il mio dolore.

Vorrei poter dire che da allora il cammino è stato in discesa, ma non è così. Ad ogni nuova partenza o sfida che mi si presenti, la paura torna sempre. Il disagio, la mancanza di equilibrio sono i miei primi compagni di viaggio. E quando la resistenza al cambiamento è troppo forte, la vita torna con i suoi scossoni compassionevoli.

E’ una lotta. Eterna. E decisamente impegnativa. Ma realizzabile. E con tempi di ripresa sempre più rapidi, con soddisfazioni sempre più grandi e passi sempre più lunghi. Adesso, ogni volta che si presenta una novità o un ostacolo che mi costringe ad uscire dal mio guscio sicuro, l’accolgo come l’ennesima opportunità che la vita mi sta dando per aprirmi al mondo, per migliorarmi e superare i miei limiti.

E infatti miglioro, supero i limiti e allargo la zona di comfort. Affronto tutto con coraggio e poi torno a casa, a godermi ciò che sta tra la fine di un’avventura e l’inizio della successiva: un buon libro sul divano e una tazza di cioccolata!


Da quando ho scritto questo post (27 novembre 2016) sono passati quasi due anni, un’incredibile esperienza nei campi profughi in Libano, tre relazioni, un cancro, due operazioni, la radio e tantissimo lavoro sia professionale che interiore. Eppure ancora una volta mi trovo a dover ricominciare tutto da capo: affrontare di nuovo la malattia, in un’altra città di un altro Paese, con un lavoro diverso e senza la persona che in teoria era il mio compagno.

Di nuovo la lotta, di nuovo la paura. E se anche una parte di me sa che vincerò – come sempre-, il più grande sforzo consiste nel cercare di ignorare quella vocina che striscia come un serpente fra i pensieri e le cose da fare, sussurrando “questa volta non ce la farai!”. E allora rileggo di tutte le volte che ho combattuto per la mia felicità, con le unghie e con i denti, anche quando non ci credevo, anche quando ero stesa su un letto paralizzata dal dolore, anche quando credevo di aver perso l’amore o peggio quando credevo di non meritarlo. E così scopro che questo blog non serve per condividere le mie lotte con gli altri, per incoraggiare le mie amiche o per farle ridere. Non solo. Serve soprattutto a me stessa. Un inno alla forza, per ricordarmi chi sono.

Io sono una vincitrice.

E anche questa volta prenderò questa sofferenza e ne farò un capolavoro.

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No me gustan las despedidas, los finales y “vivieron felices para siempre”. Ni siquiera me gustan los nuevos comienzos, los cambios o las grandes revoluciones. Me gusta lo que está en medio. El camino entre el principio y el final. Amo la vida cotidiana, la rutina. Sentirse como en casa. Estoy más interesada en el proceso que en el resultado. Siempre he saltado cuando era necesario saltar. Me echo a volar cuando es necesario, pero no puedo esperar para aterrizar y mantener mis pies firmemente plantados en el suelo nuevamente. Las transformaciones me asustan. Me asusta lo que no sé. Sin embargo, nunca me eché atrás. En treinta y cuatro años viví en nueve ciudades, en cinco países de cuatro continentes diferentes. Hice trece mudanzas. He cambiado el curso de mis estudios de universidad dos veces. 10 veces el trabajo. Tuve varios novios y novias. Viví con una pareja durante seis años y me escapé por un pelo de la boda. Me lancé con el paracaídas desde quince mil pies y rodé desde una colina dentro una pelota de goma. Visité más de veinte países y probé veintitrés tipos diferentes de cocina. Fui cristiana por catorce años, agnóstica por nueve y soy budista desde diez. Aprendí tres idiomas más y comencé a estudiar canto y guitarra a los treinta años. He hecho y cambiado tantas cosas que siento que he vivido mil vidas. Los que me conocen no pueden creer que tengo miedo de lo desconocido; Que también me cuesta salir de mi zona de confort. Y, sin embargo, es realmente así. Pero entonces, ¿por qué he logrado hacer todo lo que hice? ¿Por qué abandoné mis certezas y logré superar el miedo a perder todo? ¿El miedo a cometer errores, a cambiar, a estar sola? La verdad es que tenía una ventaja en mi vida. Un solo recurso que me llevó a salir de la cáscara protectora del hábito y la familiaridad: el dolor. Sí, fue el gran sufrimiento que sentí de niña que me llevó a esforzarme en una búsqueda continua de mí misma. El vacío en mi pecho que siento desde que tengo memoria de mí, fue el motor más poderoso de mi revolución humana y todavía lo es. La depresión que sufrí en la adolescencia fue la salida de un camino que estaba ya escrito para mí por la sociedad en la que crecí: un diploma, tal vez un título universitario, solo para mostrarlo con los demás ciudadanos, y ciertamente un trabajo cerca de casa hasta el matrimonio con el primer amor, coronado con uno o más embarazos. Este era el futuro que esperaba. Que todos esperaban de mí. El futuro que pensaba querer. Pero la vida tenía algo más reservado para mí. Solo que es difícil abandonar las expectativas, los sueños de niño y todo lo que es familiar. Es difícil recorrer caminos no asfaltados, a menudo llenos de baches y peligros. Elegir el camino más difícil no es fácil. Entonces, al igual que una madre compasiva regaña a su hijo cuando comete un error, la vida me dio un buen impulso. Un nuevo comienzo, poniendo a cero todo. Sí, porque como dice una querida amiga mía, la depresión es un cero del alma. O seguro que eso fue para mí. A partir de ese cero lo reconstruí todo. Reconstruí mi identidad, mis sueños y mi camino. Y para hacer esto tuve que dar mi primer salto al vacío, a mi agujero negro personal. El primer viaje fue el más importante: aquello en busca de mí misma, para mirar hacia adentro y enfrentar mi dolor. Me gustaría decir que desde entonces el viaje ha sido cuesta abajo, pero no es así. A cada nueva partida o desafío que se me presenta, el miedo siempre regresa. La incomodidad, la falta de equilibrio son mis primeras compañeras de viaje. Y cuando la resistencia al cambio es demasiado fuerte, la vida regresa con sus sacudidas compasivas, y me trae otros desafíos come el cáncer: mi gran maestro. Es una lucha. Eterna. Y definitivamente desafiante. Pero alcanzable. Y con tiempos de recuperación cada vez más rápidos, con satisfacciones cada vez mayores y pasos cada vez más largos. Ahora, cada vez que hay algo nuevo o un obstáculo que me obliga a abandonar mi cáscara segura, le doy la bienvenida como otra oportunidad que la vida me brinda para abrirme al mundo, para superarme y superar mis límites. Y de hecho mejoro, supero los límites y amplío la zona de confort. Me enfrento a todo con coraje y luego me voy a casa, para disfrutar de lo que hay entre el final de una aventura y el comienzo de la siguiente: ¡un buen libro tumbada en el sofá y una taza de chocolate!

Come le doglie

C’è una solitudine che non riesce a stare sola e ti porta in giro a cercare cose da fare e gente da vedere. Una solitudine che si nasconde dietro impegni importanti e scadenze da rispettare. Una solitudine che non parla e che non si ascolta, che fugge da se stessa perché non si accetta. Che preferisce accontentarsi di poco, piuttosto che viversi. Una solitudine codarda, che strappa le radici per paura della fatica che comporta prendersene cura.

E poi c’è una solitudine rumorosa, che non ti lascia dormire la notte e di giorno ti distoglie dal qui e ora, parlandoti del passato. Una solitudine che grida per essere accolta e accettata. Una solitudine che leviga e imbellisce l’animo perché non si accontenta e non elemosina, non si sfinisce in una corsa contro il tempo per non pensare. È una solitudine amica, che svuota per lasciare spazio, che scava dentro per piantare nuovi semi.

Io le ho vissute entrambe nella mia vita e ho imparato a diffidare dell’una e a immergermi nell’altra. È un processo doloroso ma necessario, come le doglie per una donna gravida.

Se la vita stessa viene fuori grazie alla sofferenza, come si può crescere evitando il dolore?


Hay una soledad que no puede estar sola y te lleva a buscar cosas que hacer y personas que ver. Una soledad que se esconde detrás de importantes compromisos y plazos que hay que respetar. Una soledad que no habla y que no se escucha, que se escapa de sí misma porque no se acepta. Que prefiere conformarse con poco, en lugar de vivir. Una soledad cobarde, que arraiga por temor al esfuerzo que supone cuidarla.

Y luego hay una soledad ruidosa, que no te deja dormir por la noche y durante el día te distrae del aquí y ahora, hablándote del pasado. Una soledad que clama ser aceptada y acogida. Una soledad que suaviza y embellece el alma porque no está satisfecha y no ruega, no se agota en una carrera contra el tiempo para no pensar. Es una soledad amigable, que vacía para dejar espacio, que cava para plantar nuevas semillas.

Yo viví las dos en mi vida y aprendí a desconfiar de una y sumergirme en la otra. Es un proceso doloroso pero necesario, como los dolores del parto de una mujer embarazada.
Si la vida misma surge del sufrimiento, ¿cómo podemos crecer evitando el dolor?

Frammenti sul genere

 

Caro Ste!

Rido e non solo per la battuta. Rido per quello che sto per dire, perché non avrei mai pensato di dire dirlo ad un uomo. E ora riderai anche tu: non puoi aver più ragione di così! Su tutto!

Ma andiamo in ordine.

Dici che voi uomini non siete socialmente abituati ad esprimere le emozioni. Esatto! Che bisognerebbe essere educati alle emozioni. Giustissimo! Pensa che questo è quello che faccio nella vita, in quanto educatrice. Laboratori di alfabetizzazione emotiva: capire cosa sono le emozioni, quali sono, che non sono giuste o sbagliate, in quali parti del corpo le sentiamo, come gestirle. Questi laboratori, però, non sono indirizzati solo ai maschi. Anche noi donne non siamo abituate ad esprimere le emozioni. Certo starai pensando che non è così, che noi donne parliamo di più, piangiamo di più, gridiamo di più. Si, è vero ma questo non ha a che vedere con la consapevolezza e la gestione delle proprie emozioni. Probabilmente ha a che fare con l’esatto contrario. Siamo così educate a pensare secondo un ordine simbolico maschile che sin da bambine smettiamo di sentirci noi e iniziamo a desiderare di essere voi. Ma siccome non lo siamo finiamo per essere un ibrido: donne che sentono ma non vogliono sentire, che vogliono essere “virili” per non essere considerate delle “femminucce” e che quindi trattengono più che possono, finché non esplodono. E il paradosso è che è proprio il non voler essere considerate delle “femminucce” che ci porta ad avere quegli atteggiamenti grazie ai quali si crea lo stereotipo della donna isterica e piagnucolosa. Cosa ne pensi?

Per quando riguarda il resto, mi trovi d’accordo con te anche nel pensare che siamo tutti un po’ barche, un po’ passeggeri, un po’ scogli.. e poi c’è chi ha la fortuna di essere casa. Credo che ciò non dipenda solo dal momento in cui ci troviamo, ma anche da con chi ci relazioniamo. Posso dirti con certezza che sono stata relitto per qualcuno, roccia per altri, passeggera con molti e adesso voglio essere casa. E voglio essere casa, anche per chi casa non sarà per me. Ma tu già lo sai.

Ti abbraccio

Eli

Tirando le fila del blog (lavori in corso)

Stava male. Non riusciva a pensare a nient’altro che a questo. Beh, a questo e anche al suo libro. Sin da quando aveva memoria di sé, aveva sempre saputo che c’era un libro dentro di lei. Non che si credesse una scrittrice o qualcosa di simile, come una blogger o una giornalista. No, no, niente di tutto ciò. Solo che custodiva dentro di sé una storia che andava raccontata, e quale miglior modo di raccontarla se non con un libro?

Che storia? Non lo sapeva e stava male anche per questo. Oltre che per mille altre buonissime ragioni. Si, perché lei non era una di quelle che soffrono per un esame andato male o per un’ammaccatura sulla macchina.  E’ vero che la sofferenza è sofferenza sempre, ma diciamocelo, alcune volte si soffre proprio per delle cazzate! Che so, per una persona che ti insulta sull’autobus o per una donna che ti provoca invidia per quanto è bella, mentre tu sei alta un metro e 62 (sulla carta di identità, se ti va bene!), hai i capelli che sembrano quelli delle barbie a cui hai fatto e rifatto lo shampoo da bambina e le uniche forme che ti ritrovi sono quelle di formaggio con cui ti sfondi a pranzo e a cena (e durante lo spuntino di mezzanotte).

Ma lei no, non si accontentava di soffrire superficialmente. Come per ogni cosa che faceva, andava fino in fondo. E infatti lei soffriva perché sentiva il mondo. O meglio sentiva il mondo quando soffre. Poi aveva anche il cancro e una famiglia che al confronto quella degli Adams sembra il mulino bianco, ma queste erano bazzecole se paragonate al buco che le squarciava il petto e che lei chiamava il vuoto.

Per un periodo della sua vita, durante l’adolescenza, non era riuscita a gestire il suo “sentire” e così aveva iniziato a bere e a fumare erba. Ma era troppo intelligente per non capire che quei sotterfugi non duravano abbastanza e che poi le presentavano un conto molto amaro, fatto di mal di testa, vomito e vuoti ancora più profondi. Così smise, con la stessa lucidità con cui aveva iniziato, e cominciò la sua ricerca di una luce in fondo a quel tunnel, una luce che non fosse solo un miraggio provocato da alcool e stupefacenti.

Il primo esperimento fu, ovviamente, l’amore. Penserete “che banalità!”, e lo pensava anche lei in realtà. Qualcosa nelle favole e nei romanzi d’amore non l’aveva mai convinta del tutto, e non sto parlando solo della storiella del ranocchio (palese tentativo di convincere le belle donne che anche i cessi possono renderle felici) ma dell’attesa. Proprio così, l’attesa. Fateci caso: che si tratti di favole o di film, c’è sempre una donna (raramente un uomo) che aspetta o di essere salvata dalle grinfie di qualche regina cattiva (anche qui raramente uomini cattivi… seriamente????) o di ricevere una qualche prova che le restituisca la fiducia nell’amore (solo dopo che il principe di turno ha involontariamente fatto cadere il suo cuore nel tritarifiuti). Ben presto, infatti, si era resa conto che questa storia dell’attesa era una grande fregatura per le donne, perché mentre loro si fermavano ad attendere la trasformazione (ahimè, spesso solo interiore) del ranocchio, gli uomini andavano avanti e le superavano sul lavoro, e non solo: mostravano la loro spada lucente a molte più principesse di quelle che effettivamente salvavano!  E le donne? Addormentate! in tutti i sensi.

Ad ogni modo l’esperimento fu un fallimento totale, che provò a ripetere più volte nel corso degli anni ma con risultati sempre più deludenti, seguendo lo schema di una relazione inversamente proporzionale: più lei si impegnava (e si impegnava tanto, per dio! Fino alla fine, come in ogni cosa che faceva) più l’altro se ne fregava. Anziché un antidoto contro il vuoto cosmico che le procurava la sofferenza degli altri, otteneva un veleno ancora più potente. Così, un giorno decise che se non poteva smettere di sentire il dolore del mondo allora lo avrebbe salvato. E come sempre giù per una strada fino in fondo: volontariato, lauree, lavoro, master, tirocini, missioni in luoghi sperduti e pericolosi, dottorato: tutto secondo un progetto logico e ben pianificato, con il fine ultimo di fare la differenza.

Povera illusa.  Come poteva credere davvero che l’universo le avrebbe permesso di dedicare tutte le sue energie in una missione suicida? Non è possibile salvare nessuno a questo mondo, l’unica persona che puoi salvare è te stessa. E dopo averlo fatto, allora puoi offrire quello che hai capito agli altri. Ma prima devi riempire quel vuoto che hai dentro e non puoi farlo senza capire perché lo senti. E così l’universo ti manda il maestro più saggio per impartirti questa lezione.

Il cancro.

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Il mantra di Platino

Poche cose ti erodono dentro come sentirsi soli in due.

Quella sofferenza latente ma costante, fastidiosa come un rubinetto che perde, ma che ad un certo punto ti erutta fuori dal cuore senza scampo. E ti lascia lì pietrificata, come una statua di lava.

All’inizio credi che puoi aggiustare tutto, che basti avvitare bene la relazione per sistemare la perdita d’amore. Ma mentre ci provi passa il tempo, e più cerchi la complicità dell’altro più scopri che hai davanti un muro di gomma. Continui a rimbalzare fra una promessa e una sfuriata finché non sei sfinita. E ti arrendi.

Ti arrendi perché hai capito che per essere veramente in due non bastano due persone che stanno insieme. È necessario decidere costantemente di esserci l’uno per l’altra e viceversa, senza se e senza ma. E non tutti lo sanno fare, così come non tutti capiscono la differenza fra scusarsi e giustificarsi o l’importanza di non classificare la sofferenza dell’altra in base ai propri standard. Ma soprattutto pochissimi hanno il coraggio di fare quel gesto che non comprendono, che magari nemmeno condividono, solo perché fa stare bene la persona amata.

La cosidetta Regola di Platino: non fare agli altri quello che vorresti facessero a te, ma fai loro quello che vogliono che tu faccia loro.

Il segreto per una relazione duratura è decidere nel proprio cuore di fare tutto ciò che è in nostro potere e che non ci danneggia, per far stare bene la persona a cui vogliamo bene. Anche se non vogliamo lo stesso per noi, anche se non ne comprendiamo il bisogno perché noi non ne abbiamo dello stesso tipo.  Anche se ci sembra banale, o infantile, o strano.

“Se posso fare ciò che può renderti felice, voglio farlo! anche se non lo capisco.” Questo è il mantra delle coppie sane. Il mantra di Platino.

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Chi sia accontenta muore

 

Ogni volta che ho scelto di non parlare per paura. E pure quando non mi sono ribellata al male.

Ogni volta che ho accettato un ricatto per non essere abbandonata. E quelle volte in cui ho subito in silenzio.

Ogni volta che ho pensato di non essere abbastanza. E ogni volta che ho lasciato che qualcuno me lo facesse credere.

Ogni volta che non ho pianto per vergogna. E tutte quelle in cui l’ho fatto sommessamente, per non disturbare.

Ogni volta che non ho preteso rispetto. E pure quelle volte in cui ho barattato la mia dignità con un poco di carezze.

Ogni volta in cui non mi sono amata abbastanza da proteggermi.

Ogni volta che ho elemosinato affetto. E tutte le volte in cui ho camminato in punta di piedi nella vita degli altri.

Ogni volta che ho pensato di non meritare di più e anche quando mi sono accontentata delle briciole.

Ognuno di queste volte, il cancro si è fatto strada dentro di me. Ogni volta stavo morendo poco a poco.

La felicità è un muscolo

La vittoria non è un punto fisso, una meta da raggiungere. È una serie infinita di punti, un percorso che non finisce mai. Non è  l’obiettivo che vuoi realizzare o la malattia che vuoi sconfiggere. Ci sono giorni in cui può sembrarti che lo sia ma è solo un’illusione. La vittoria è dinamica, mutevole, si adatta agli ostacoli e cambia come cambiano le stagioni. Non è il capolinea di una strada dritta, lineare, ma il centro di una spirale infinita.

Tu credi che l’obiettivo che stai perseguendo ti renderà felice e invece dopo averlo raggiunto, capisci che è stata proprio la lotta a colorare la tua vita e che gli ostacoli sono sono delle linee che separano chi eri prima da chi sei dopo averli superati. L’obiettivo in realtà sei e sei sempre stato tu: la vittoria con la V maiuscola, la felicità che non dipende da niente e da nessuno. Quella che viene da dentro, quella assoluta.

Una vittoria senza forma o sapore che quasi sempre arriva silenziosa, senza grandi cerimonie. E così come arriva se ne va. Si perché non è un punto fisso nel tempo e nello spazio, non è un traguardo da oltrepassare, ma piuttosto il carburante che ti permette di arrivarci.  È come una caccia al tesoro, nella quale ogni indizio trovato ti fa andare avanti, ti da la carica che serve per continuare ma non è mai sufficiente da solo per vincere il premio. La felicità assoluta è ciò che ti permette di percepire gli ostacoli come opportunità e la sofferenza importante tanto quanto la gioia.

Eppure anche se l’hai provata una o mille volte, la dimenticherai ogni volta che avrai di fronte una grande sfida. Già, perché in realtà  non è data una volta per tutte. È come vincere una corsa e se vuoi continuare a gareggiare e vincerne altre, dovrai continuare ad allenare le tue gambe. Ecco per la felicità assoluta vale lo stesso, è come un muscolo e va allenata e la vittoria non è il premio in sè ma il continuo allenamento che ti permette di vincerlo.

 

 

 

Come mi merito

Tanti sono stati i rifiuti e gli abbandoni e per troppo tempo ho creduto che il motivo fosse che ero una persona “difficile da amare”.

Quando un fraintendimento inaspriva la comunicazione, non mi sono mai accontetata di un “lasciamo perdere”, perché so bene che a furia di lasciar correre ti scappa via anche il sentimento.

Quando era necessario impegnarsi di più, ho sempre lottato allo stremo delle mie forze, spesso anche per l’altra persona. E questo gli ha permesso di adagiarsi sugli allori e considerarmi “scontata”, per poi stupirsi dei miei crolli emotivi.

Quando l’altro non si comportava all’altezza della persona che voleva essere, ho sempre cercato di farglielo notare e lui ha preferito vedere una critica su ciò che era andato male, dove invece c’era la fiducia in ciò che poteva essere migliorato.

Ho sempre pensato di aver sbagliato tutto. Oggi so che non sono io ad essere “difficile” ma sono le persone che si sono allontanate da me, che non avevano il cuore abbastanza grande da contenere l’universo che ho dentro; che non avevano la coerenza necessaria per rimanere fedeli alle promesse che mi avevano fatto; ma soprattutto, che non avevano la speranza né il coraggio di lottare per il mondo che io ancora credo possibile.

Eh si, io non sono “difficile da amare” ma di certo, non è facile amarmi come io mi merito.

 

 

 

 

 

 

 

 

Le urla senza voce

Arrivano nei momenti di solitudine, quando c’è silenzio nella stanza e nella mia testa. Quando non ho qualcosa da fare o da sistemare, quando non ho qualcuno di cui prendermi cura e posso ascoltarle, arrivano.

Da lontano o da vicino, arrivano, senza nessun filtro. Cariche di disperazione e di rabbia.

E allora mi fermo. Mi lascio sommergere. Attraversare. Riempire. Fino a non sentire più  di essere una sola, fino a sentire quel filo che mi lega a tutti gli altri, quel richiamo atavico dentro di me che mi fa sentire parte di un tutto.

Ed è in quel momento che sento quel dolore straziante alla bocca dello stomaco, che non mi uccide ma mi diminuisce, che non mi lascia cicatrici addosso ma mi rende partecipe fino a lasciarmi sfinita, senza respiro.

Lo sento e lo sento fin dentro le ossa. Lascio che mi scavi dentro, senza fretta. Senza paura. Non come una volta, quando non sapevo che farne.

Oggi più che mai non vorrei mai smettere di sentirlo. Oggi più  che mai non vorrei perdere la mia umanità.

Così  quando arrivano io le ascolto. Le urla mute di chi non ha voce in questo mondo. Oggi più che mai. Perché oggi sono io la loro voce.

Io ci proverò

Un giorno ti capiterà di essere troppo stanco o stanca per informarti, per resistere, per lottare, avrai paura per il futuro dei tuoi figli e vorrai soltanto trovare una soluzione, un senso, qualcuno da incolpare. E loro lo avevo previsto: ti avevano già  bombardato di notizie false, di frasi fatte e stereotipi.

E così, semplicemente, succederà: smetterai di vedere individui, persone con una coscienza propria, con un percorso e una storia che le rende uniche ma vedrai solo la loro etnia, il loro sesso, o la loro provenienza. E saranno tutti uguali, divisi per categoria.

La categorizzazione è il meccanismo che crea gli stereotipi su cui si formano i pregiudizi. Ed è utile per lo più, quando serve a formare scatole mentali in cui ordinare le migliaia di informazioni che arrivano al tuo cervello, a raffica, dal mondo esterno. Ma è anche la madre di tutti i razzismi, i sessismi e le fobie: una trappola mortale per la tua umanità, quando l’astrazione finalizzata a semplificarti il pensiero diventa l’unico modo di vedere il mondo, una macchina che produce giudizi basati solo su una visione stereotipata della realtà.

Quando questo succederà, comincerai a parlare con frasi che hai sentito mille volte, anche se non sai chi le ha dette per primo o quando. Selezionerai le notizie da leggere, in modo che rinforzino la tua opinione, e ad un certo punto utilizzerai i social network come fossero mezzi di informazione. Smetterai di chiamare le persone “persone” e inizierai a definirle sulla base del luogo d’origine o di chi si portano a letto. Avrai paura di loro anche se non ti hanno mai fatto nulla e persino se non le hai mai incontrate. E se per caso qualcuno di loro ti sorprenderà, sarà soltanto l’eccezione che conferma la regola. Starai ben attento o attenta nel sottolineare l’innocenza di donne e bambini, come se non fossero le loro madri e i loro figli, ed eviterai di usare il pronome “tutti”, optando per una più equa definizione: “la maggior parte”.

Sì, vedrai il mondo diviso in tante parti: quelle che rubano il lavoro, o peggio che rubano e basta; le parti che vogliono imporre la loro religione o la loro idea di famiglia; le parti che minacciano la tua virilità o il tuo ruolo sociale.

E arriverà il giorno i cui diventerà quasi impossibile farti cambiare idea, nemmeno con dati e fonti autorevoli alla mano o con il racconto di storie personali.

Sarà difficile farti vedere una risorsa dove vedi un’invasione, e la resilienza del naufrago al posto della disperazione. Farti scorgere la bellezza nella diversità o l’amore, dove vedi solo una perversione.

Sarà uno sforzo cercare di mostrarti a colori un mondo che ti ostini a dividere in bianco e nero. Ma io ci proverò lo stesso. E finché ci proverò, saprai che non ho smesso di avere fiducia in te. O nel mio Paese.

 

 

Il buddismo ci insegna che decidere è  il passo fondamentale nel percorso verso la nostra rivoluzione umana. Ma noi  non abbiamo potere di scelta su ciò che ci accade. La scelta riguarda però il modo in cui decidiamo di affrontarlo.

La scelta è ciò che rende prezioso ogni momento, che rende importante o meno una persona o un luogo: perché stare con lei e non con un’altra? perché scegliere di vivere in un posto piuttosto che un altro? Perché  l’abbiamo scelto!

Per questo è saggio non scegliere in balia delle emozioni (o degli ormoni!), e non prendere decisioni importanti con lo stato vitale basso o durante un momento critico.

Questo è lo scopo del daimoku: pulire la nostra mente e il nostro cuore dalle conseguenze delle azioni del passato, dalle cause negative, dal karma.

Il daimoku è come il tergicristallo che pulendo i vetri della macchina ci permette di vedere e quindi imboccare la strada giusta.

Per me è un mezzo per non perdermi nel caos del mio universo interiore appena ri-esploso.

Per questo ho deciso che non prenderò più decisioni importanti senza prima ripulire bene il mio parabrezza della vita, per poter avanzare. E anche il lunotto.. In caso di retromarcia!!

Una seconda possibilità

Uno dei miei scrittori preferiti una volta ha detto che gli esseri umani non nascono solo una volta ma che la vita li costringe più volte a partorirsi da sé.

Ed è così che mi sento: non rinata ma proprio ri-partorita, appena fuori da quel tunnel che credevo fosse la morte e invece era la vita.

E come se il cancro avesse ucciso quella parte di me che mi aveva fatta ammalare, la parte giudicante e per nulla compassionevole nei miei confronti, quella che amava troppo gli altri perché incapace di amare se stessa.

E così a distanza di pochi giorni dalla radio avevo smesso di esistere, una morte emotiva. Non sentivo più nulla, né gioia né dolore. E per mesi ho vissuto con il pilota automatico inserito: sveglia presto, lavarsi, cucinare, andare in palestra, fare terapia, lavorare ma tutto senza esserci davvero. Osservavo le mie giornate come una spettatrice esterna e mi chiedevo se il limbo in cui ero caduta avesse una via d’uscita.

E poi piano piano ho ricominciato a essere e a sentire, ma senza quelle tendenze tossiche che mi hanno avvelenata per quasi tutta la mia esistenza. Sono tornata una vergine delle emozioni, con il contatore del cuore azzerato.

È  stato difficile orientarsi nel caos del mio nuovo universo interiore e ancora adesso mi muovo a tentativi, gattonando e cercando l’equilibrio per potermi alzare in piedi. È  una nuova sfida, finalmente!

Guardo me stessa e gli altri con occhi nuovi, pieni di stupore per le cose e le persone meravigliose che mi circondano. Mi sorprendo di come la vita si faccia strada nei modi più impensabili, anche attraverso la morte e mi sento grata di aver avuto una seconda possibilità…

…mi sento grata di aver avuto il cancro.

 

Quel cammino tra l’inizio e la fine.

Non mi piacciono gli addii, i finali e i “vissero felici e contenti”. Non amo neanche i nuovi inizi, i cambiamenti o le grandi rivoluzioni.

Mi piace cosa sta in mezzo. Il cammino tra l’inizio e la fine. Adoro la quotidianità, la routine. Il sentirmi a casa. Mi interessa più il processo che il risultato.

Ho sempre fatto il salto quando era necessario buttarsi. Spicco il volo ogni volta che serve ma non vedo l’ora di atterrare e tenere di nuovo i piedi ben piantati per terra. Le trasformazioni mi spaventano. Mi terrorizza quello che non conosco. Eppure non mi sono mai tirata indietro.

In trentun anni ho vissuto in otto città, in quattro nazioni di tre continenti diversi. Ho fatto dieci traslochi. Ho cambiato facoltà due volte. Lavoro otto. Ho avuto diversi fidanzati e fidanzate. Ho convissuto per sei anni e ho scampato il matrimonio per un pelo. Mi sono buttata con il paracadute da quindici mila piedi e sono rotolata da una collina, dentro una palla di gomma. Ho visitato quasi venti paesi e ho assaggiato ventitré tipi di cucina diversi. Sono stata cristiana per quattordici anni, agnostica per dieci e sono buddista da sette. Ho imparato tre lingue diverse dalla mia e ho iniziato a studiare canto e chitarra a trentun anni.

Ho fatto e cambiato così tante cose che mi sembra di aver vissuto mille vite. Chi mi conosce non può credere che io abbia paura dell’ignoto; che anche io abbia difficoltà a lasciare la mia zona di comfort. Eppure è proprio così. Ma allora perché sono riuscita a fare tutto quello che ho fatto? Perché ho abbandonato le mie certezze e sono riuscita a vincere la paura di perdere tutto? La paura di sbagliare, di cambiare, di stare da sola?

La verità è che ho avuto un unico vantaggio nella mia vita. Un unico espediente che mi ha portato ad uscire dal guscio protettivo dell’abitudine e della familiarità: la sofferenza.

Si, è stata la grande sofferenza che ho provato fin da piccola a spingermi alla ricerca continua di me stessa. Il vuoto che ho nel petto da quando ho memoria di me è stato il motore più potente della mia rivoluzione umana e lo è tutt’ora.

La depressione di cui ho sofferto in adolescenza è stata la mia via d’uscita da un percorso già scritto per me, dalla società in cui ero cresciuta: un diploma, forse una laurea – giusto per poterla sfoggiare con i compaesani – e certamente un lavoro vicino casa fino al matrimonio con il primo amore, coronato da una o più gravidanze. Questo era il futuro che mi aspettavo. Che tutti si aspettavano da me. Il futuro che credevo di volere. Ma la vita aveva altro in serbo per me.

Solo che è difficile abbandonare le aspettative, i sogni da bambina e tutto ciò che ci è familiare. E’ dura percorrere strade non asfaltate, spesso piene di dossi e pericoli. Scegliere il cammino più difficile non è semplice. Allora, proprio come una madre compassionevole sgrida il figlio quando sbaglia, la vita mi ha dato una bella spinta. Una nuova partenza, azzerando tutto. Si perché come dice una mia cara amica, la depressione è uno zero dell’anima. O di sicuro lo è stato per me.

Da quello zero ho ricostruito tutto. Ho ricostruito me stessa, i miei sogni e il mio cammino. E per farlo ho dovuto fare il mio primo salto nel vuoto, nel mio personale buco nero. Il primo viaggio è stato il più importante: quello alla ricerca di me stessa, per guardarmi dentro e guardare in faccia il mio dolore.

Vorrei poter dire che da allora il cammino è stato in discesa, ma non è così. Ad ogni nuova partenza o sfida che mi si presenti, la paura torna sempre. Il disagio, la mancanza di equilibrio sono i miei primi compagni di viaggio. E quando la resistenza al cambiamento è troppo forte, la vita torna con i suoi scossoni compassionevoli.

E’ una lotta. Eterna. E decisamente impegnativa. Ma realizzabile. E con tempi di ripresa sempre più rapidi, con soddisfazioni sempre più grandi e passi sempre più lunghi. Adesso, ogni volta che si presenta una novità o un ostacolo che mi costringe ad uscire dal mio guscio sicuro, l’accolgo come l’ennesima opportunità che la vita mi sta dando per aprirmi al mondo, per migliorarmi e superare i miei limiti.

E infatti miglioro, supero i limiti e allargo la zona di comfort. Affronto tutto con coraggio e poi torno a casa, a godermi ciò che sta tra la fine di un’avventura e l’inizio della successiva: un buon libro sul divano e una tazza di cioccolata!