Gli anni dispari

Si avvicina il mio compleanno. 38 anni. Che seccatura. No, non per l ‘età che avanza ma per i numeri pari. Vorrei passare direttamente a 39 e poi 41. Ero felicissima con il 37. Non chiedetemi perché ma gli anni dispari mi stanno addosso bene, come la mia giacca in finta pelle o le gonne corte. Quelli pari invece…
Ma il mio problema con i compleanni pari non è niente a confronto con quello che vivono le mie coetanee. Guardo sui Social, le ascolto al supermercato o nei pub e tutte (quasi tutte) non fanno altro che lamentarsi dell’età che avanza. E via con meme sul confronto fra 20enni e 30enni, lamentele che rasentano il pianto, per le prime rughe o per quello che doveva essere e non è stato.
E io quando vedo o sento certe cose che scrivono o dicono mi sento indecisa fra tirare loro uno schiaffo per svegliarle o abbracciarle per rassicurarle. Vorrei andare da ognuna di loro e chiedere se si ricordano di essere state davvero così felici a 20 anni. Io di certo non lo ero.

Questa ragazza di 20 anni era bellissima. Molto più bella di me forse, esteticamente, e le vorrò per sempre bene ma non ha neanche la metà del mio carattere, della mia tenacia e del mio talento. Il mio spirito ha attraversato deserti e sbriciolato montagne e se questo si vede sul mio volto, posso solo esserne fiera. In questo momento della mia vita che è difficilissimo, non vorrei mai e poi mai avere lei al mio fianco perché sarebbe stato l’inferno cercare di rassicurarla sul domani mentre cerco disperatamente di vivere il presente. Di starci ancorata e godermi ogni momento come se fosse l’ultimo. Mio. Di mio padre. Di mia madre. Delle persone che amo.
Se solo potessi, direi a tutte le donne il segreto che non hanno ancora scoperto: l’importante non è rimanere giovani, l’importante è rimanere presenti. A sé stessi, agli altri, ai propri sogni, alle versioni di noi che non sono più ma che portiamo dentro. E alla versione 20enne di me dico: ti voglio bene, ti perdono per il male che ti sei fatta, ti sono grata per essere rimasta e ti ammiro per la forza che ti è costata farlo. Adesso però ci sono io, puoi riposare.

Come se mi allontanassi da un prato pieno di fiori

Me despido de ti, sin rencor ni miedo.

Me voy de tus abrazos como si me alejara de una isla de sol o un prado lleno  de flores.

Te abandono como se abandonan los juguetes cuando dejas de ser niño,

o las batallas cuando ya has ganado tu guerra.

Y así te saludo “mitad del alma mía”..

¡Hasta la próxima vida!

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Una seconda possibilità

Uno dei miei scrittori preferiti una volta ha detto che gli esseri umani non nascono solo una volta ma che la vita li costringe più volte a partorirsi da sé.

Ed è così che mi sento: non rinata ma proprio ri-partorita, appena fuori da quel tunnel che credevo fosse la morte e invece era la vita.

E come se il cancro avesse ucciso quella parte di me che mi aveva fatta ammalare, la parte giudicante e per nulla compassionevole nei miei confronti, quella che amava troppo gli altri perché incapace di amare se stessa.

E così a distanza di pochi giorni dalla radio avevo smesso di esistere, una morte emotiva. Non sentivo più nulla, né gioia né dolore. E per mesi ho vissuto con il pilota automatico inserito: sveglia presto, lavarsi, cucinare, andare in palestra, fare terapia, lavorare ma tutto senza esserci davvero. Osservavo le mie giornate come una spettatrice esterna e mi chiedevo se il limbo in cui ero caduta avesse una via d’uscita.

E poi piano piano ho ricominciato a essere e a sentire, ma senza quelle tendenze tossiche che mi hanno avvelenata per quasi tutta la mia esistenza. Sono tornata una vergine delle emozioni, con il contatore del cuore azzerato.

È  stato difficile orientarsi nel caos del mio nuovo universo interiore e ancora adesso mi muovo a tentativi, gattonando e cercando l’equilibrio per potermi alzare in piedi. È  una nuova sfida, finalmente!

Guardo me stessa e gli altri con occhi nuovi, pieni di stupore per le cose e le persone meravigliose che mi circondano. Mi sorprendo di come la vita si faccia strada nei modi più impensabili, anche attraverso la morte e mi sento grata di aver avuto una seconda possibilità…

…mi sento grata di aver avuto il cancro.

 

Quel pezzo di Kosen Rufu che posso fare solo io

Ho il cancro. Beh tecnicamente non c’è più il nodulo nel mio corpo, anche se dovrò sottopormi ad una terapia per essere certa che non ne rimanga traccia. In ogni caso ho il cancro perché una volta che l’hai avuto, ce l’hai per sempre. Per sempre dovrò fare dei controlli, per sempre terrò la cicatrice sul mio collo, per sempre ricorderò la netta sensazione di non avere più il controllo sul mio corpo. Come se lo avessi mai avuto!

Avere il cancro mi ha buttato parecchio giù, anche se ho avuto la capacità di ironizzare e non farmi mai mancare un sorriso sulla faccia. Mi ha debilitato fisicamente e mi ha svuotato emotivamente. Mi ha anche fatto capire tante cose, e mi ha spronato a prendermi cura di me, del mio corpo e della mia mente. Il bilancio al momento è in pareggio. Confido che prima o poi sarà chiuso in attivo: finora almeno sono sempre riuscita a trasformare il veleno in medicina, per dirla alla buddese.

Ho la netta sensazione che c’è qualcosa di importante che devo cogliere da tutta questa situazione, anche se ancora mi sfugge cosa. Intanto però posso condividere con voi alcune piccole illuminazioni parziali. La prima illuminazione riguarda il cancro in sé. Esso è certamente il sintomo, non la causa. Ne sono profondamente convinta e a quanto pare, la metà dei medici che mi stanno curando nutre la stessa convinzione. Nel mio caso il cancro ha avuto diverse cause: la mancanza di amore per la mia vita, il non detto, l’ansia, lo stress e infine l’innesco, ovvero una relazione tossica. La seconda illuminazione riguarda aspetti relazionali. Le persone attorno a te si dividono automaticamente in FONDAMENTALI PER LA TUA VITA e INSIGNIFICANTI: in una frazione di secondo l’uomo per cui avevi perso la ragione per anni può diventare una persona qualsiasi ai tuoi occhi e una persona con cui avevi chiuso tutti i ponti, con serenità e anche con facilità, può tornare ad essere al centro del cuore. Membri della tua famiglia possono riunirsi o allontanarsi in modo drastico e nel giro di pochissimo tempo. Persone che non sentivi da anni e anni, all’improvviso ti cercheranno e acerrimi nemici di cui non ti importava più niente diventeranno importanti. La terza consapevolezza riguarda l’importanza delle parole e delle frasi. Non ti rendi conto di quanto siano dette con superficialità certe cose finché non hai il cancro (o la depressione, o qualsiasi altro problema molto grande). Anche tu le hai dette molte volte con indifferenza o con noncuranza. Ecco alcuni esempi: “Come stai?”. 90% delle volte è una domanda di circostanza, oppure un rompighiaccio. Quando hai un tumore diventa il tuo leitmotiv. Tutti ti chiedono come stai, almeno una volta al giorno e dopo il quarto giorno sei già arcistufa di dover rispondere con il cortese “bene”; al quinto giorno infatti cominci a usare espressioni tipo “in lotta” o “non mollo”, perché ti sei stufata di raccontare cazzate per far stare bene gli altri ma non vuoi neanche essere brutale. Dopo una decina di giorni un “DE MERDA” non te lo toglie nessuno. Altro esempio? Tutta la sviolinata su quanto sei forte, coraggiosa e ispiratrice. NO! non sono coraggiosa, non sono forte..  è solo che la vita non mi ha dato altre possibilità. Non sono un esempio per nessuno e mai ho chiesto di esserlo. Quando mi metti su un piedistallo mi privi della mia possibilità di mostrarmi fragile o spaventata o quella che sono: una malata. Questo ovviamente non vale per le amiche o per i compagni di fede, con cui puoi comunque essere te stessa perché ti amano, ti conoscono e soprattutto non ti hanno idealizzato, anzi sono spesso loro che ti ricordano che puoi piangere.

Infine, ho capito che avere una malattia ti rende vulnerabile in modi che nessuno che non ci sia passato può capire. Il tipo di fragilità a cui tutti pensano è certamente quella fisica, e poi anche quella emotiva. In realtà però, su questi due aspetti si parte abbastanza avvantaggiati grazie alle migliaia di progressi scientifici, alle medicine contro il dolore, all’allenamento culturale e sociale delle varie campagne di sensibilizzazione e di prevenzione. La fragilità a cui nessuno ti prepara è quella spirituale, cosmica per dirla in termini percepiti in modo meno “religioso”. Sono stata e per certi versi sono ancora sull’orlo di un precipizio: sotto i miei piedi c’è la sostanza, le cose che conosco da sempre, le certezze, i valori…; ad un passo da me c’è il vuoto, un vuoto così pieno di niente da essere ingombrante, pesante, presente. Il vuoto di senso, non solo della vita come la conosco da sempre ma anche della vita che ho sempre sognato. Non c’è stato mai il rischio di cadere in questo precipizio. Mai. Ma c’è stata sempre la tentazione. E c’è ancora. L’unica cosa che placa questa tentazione è il buddismo. Giuro che non so come facciano le persone malate non buddiste o in generale quelle senza una spiritualità forte, con un complesso dottrinale completo e coerente. Per ogni domanda, per ogni dubbio, per ogni sussurro demoniaco che questo cancro ha portato con sé, c’è solo un posto dove posso rifugiarmi: nelle parole del mio maestro e di conseguenza, per estensione, le parole di Nichiren e prima ancora di Shakyamuni. Né l’amore, né la mia passione per l’educazione,  e nemmeno la mia sete di giustizia, che per tanto tempo sono state il mio antidoto contro qualsiasi sofferenza, hanno potuto niente contro questa attrazione fortissima verso il nulla.

Il buddismo finora è stata l’unica religione che mi abbia mai convinto, che abbia mai davvero nutrito la mia spiritualità e che mi abbia spinto ad un miglioramento continuo. Il cancro gli ha dato un nuovo ruolo, quello di àncora. Il buddismo mi tiene ancorata alla vita ma non grazie ad un attaccamento o a una paura, come quella di morire, per esempio, o di non esistere (che è peggio). No, non nello stesso modo in cui ti tengono in vita i sentimenti, i desideri, i timori o i dubbi su ciò che viene dopo. Il buddismo mi tiene ancorata alla vita perché me ne restituisce il senso, il nesso con il tutto e rende la mia esistenza indispensabile all’interno di un quadro più ampio, nel quale Elisabeth ha una missione che solo lei può compiere. Quando arriva la tentazione di cadere, il pensiero non corre ai sogni non realizzati o alla sofferenza che provocherei, perché quel nulla li assorbe perfettamente. Quando la tentazione striscia dentro di me, il mio maestro mi esorta a restare per compiere quel pezzo di Kosen Rufu che posso fare solo io.

 

Test: scopri chi sei per Elisabeth

Alla domanda: “Come stai?” Ti ho risposto:

1) “benissimo, alla grande!”

2) “bene grazie.”

3) “ho un piccolo S.D. che cresce dentro di me.” – “ah, sei incinta?” – “no, ho un tumore!”.

4) in lotta.

Soluzioni:

1) Non me ne frega proprio niente di te. Anzi, credo che tu sia anche un po’ invidioso/a, quindi non te la do sta soddisfazione!

2) o sei un/a conoscente oppure qualcuno che non voglio fare stare in ansia.

3) sei una persona intellingente e che stimo tanto. Sono certa che la mia battuta stile humor nero l’hai colta al balzo.

4) sei una persona di cui mi fido e su cui posso sempre contare.

 

Mi merito tutto

Non dimenticherò mai il 31 maggio 2017. Quel giorno ho avuto il coraggio di credere che mi merito il massimo dalla vita, chiudendo alle mie spalle la gabbia che mi teneva prigioniera da due anni. E quell’azione coraggiosa è stata una causa enorme nella mia vita, una causa che mi ha regalato tantissimi effetti. Il primo è stato un bacio quella sera stessa: il tuo, interrotto da un ragazzo che vendeva rose. In quel momento tu mi hai guardato con dolcezza e hai detto “le prendo tutte!”. L’ambiente è solo uno specchio di ciò che abbiamo nel cuore e quella sera la risposta del mio ambiente è stata “ti meriti tutto!”.

 

L’amore è sempre l’unica risposta

La verità è che lo sforzo più grande sta nel riuscire a non ridurre tutta la tua vita, tutto il tuo corpo a quella parte di te che è impazzita.

Non riesci a credere che la gente non ti veda solo come un cancro che cammina, eppure tu non hai mai ridotto nessuno alle sue parti rotte, non hai mai considerato una persona malata meno persona.

La verità è che sei tu che ti riduci alle tue mancanze, ai tuoi fallimenti, alle tue cellule malate. E sei tu a dover allargare la visione di te, a riempire la tua vita così tanto che le sofferenze ci navigheranno dentro invece di prosciugarla.

Se solo riuscissi ad amarti veramente. E amare proprio tutto. Soprattutto quel pezzetto di te che ti sta gridando dentro.

L’amore è sempre l’unica risposta. Non è mai quella facile, però.

 

 

Il rumore dei tuoi baci riusciva a coprire il silenzio che lui mi aveva scavato dentro.

Le tue mani calde erano come cerotti per l’anima e la tua risata un balsamo per le cicatrici.

E poi cosa è successo? Cosa succede ora?

Un piccolo demonio mi corre sulla schiena e arriva all’orecchio, per sussurrarmi che sono una frigida del cuore.

Forse sono davvero una radiolina rotta, sintonizzata solo sul canale della sofferenza, e la gioia non riesco a riceverla e non la trasmetto.

O forse no.

Forse non posso dare un amore che non riesco ad accogliere, che non riesco a contenere perché ho il cuore così puntellato da aghi, che perde da tutti i lati.

Non lo so.

So solo che i tuoi baci suonavano una musica che voglio riascoltare.

 

 

Tutta una vita in un sogno

Antonio e Maria si sono conosciuti fra i banchi di scuola. Al liceo, Antonio era molto timido e non riusciva a chiedere a Maria di uscire. Maria lo guardava tutti i giorni con quegli occhioni innamorati ma lui non riusciva a prendere coraggio. Finché lei si decise e un giorno, dopo mesi di sguardi ammiccanti, si avvicinò a lui e gli disse: “Allora ti decidi? o devo dare una possibilità a quel pesantone del tuo compagno di banco?”. Lui rimase fisso immobile e diventò tutto rosso, lei fece per andarsene e allora lui con uno scatto veloce la prese per un braccio, si avvicinò alla sua faccia che odorava di rose e le schiocco un bacino veloce sulla guancia. Lei fece una risatina e disse: “Lo prendo per un si. Domani sera alle sette vieni a casa mia e chiedi a mio padre se posso uscire con te, indossa una cravatta e metti la colonia perché a mia madre non piacciono i ragazzi che non profumano.”

Era il 1967. E da allora Antonio e Maria non si separarono mai. Finito il liceo si sposarono ed ebbero quattro figli, due maschi e due femmine. Viaggiarono molto ed ebbero una vita piena di piccole e grandi vittorie. Tante gioie e tante risate ma anche tante lotte, come quando Maria dovette combattere contro un tumore all’età di 46 anni.

Per due anni non seppero se stavano per separarsi per sempre oppure no, ma non mollarono mai la presa. Quando Maria stava troppo male per alzarsi dal letto, Antonio le faceva compagnia tutto il giorno, leggendo per lei, raccontandole le novità del quartiere o semplicemente accarezzandola mentre dormiva. Ogni tanto i figli si proponevano di dargli il cambio. Un giorno Teresa, la figlia più grande gli disse: “Papà, perché non esci un po’, vai al bar dai tuoi amici e ti fai una bella partita a carte per svagarti, ci sto io con la mamma.” Lui le sorrise e le rispose: “Grazie Teresa, ma l’unico svago che voglio è tua madre. Ogni momento che passo con lei è prezioso più di un gioiello e non me ne perderò nemmeno uno finché avrò aria nei polmoni. Avrò tempo per giocare quando tua madre starà meglio e non mi vorrà più fra i piedi, per spettegolare con le vicine.”

Finalmente dopo qualche mese Maria cominciò a stare meglio ed effettivamente quando riprese a invitare le amiche a casa, Antonio tornò al bar e alle sue carte. Questa fu una delle tante sfide che la vita presentò loro. Nel corso degli anni vissuti assieme non si lasciarono mai. Finché non arrivò l’ultima sfida, quella che li avrebbe separati per davvero.

Una mattina Antonio andò a pagare le bollette alla posta e non ritornò più. All’inizio Maria si arrabbiò pensando che si fosse fermato al bar a giocare a carte, senza avvisare che avrebbe fatto tardi. Quando all’ora di pranzo non si presentò, lei si mise la giacca e andò al bar per prenderlo per le orecchie come aveva fatto tante altre volte. Appena arrivata capì subito che c’era qualcosa che non andava: il bar era vuoto, nessuno stava giocando. Ma allora Antonio dov’era?

Allarmata chiamò subito Francesco, il figlio maggiore. Lui la rassicurò dicendole che lo avrebbe cercato con la macchina in tutti i posti dov’era solito andare, e che avrebbe chiesto aiuto ai suoi fratelli e ai suoi amici. Quando alle otto di sera ancora nessuno aveva notizie, chiamarono i carabinieri. Dopo solo due ore, due carabinieri si presentarono a casa loro con Antonio. Si era perso e lo avevano trovato al parco in uno stato confusionale. Maria lo abbracciò forte e lui le disse solo “scusami” e poi scoppiò a piangere. Lei lo accarezzò e gli rispose che era tutto apposto, lo accompagnò in camera e lo mise a letto. Per farlo addormentare cominciò a cantargli la loro canzone d’amore e lui le sorrise.

Il giorno dopo Maria lo accompagnò in ospedale. Il dottore gli confermò subito i suoi sospetti: Antonio aveva l’alzheimer. Da quel giorno iniziarono gli anni più difficili della loro vita. Vivevano ogni momento con il terrore che fosse l’ultimo che Antonio potesse ricordare. Erano gelosi di ogni singolo istante passato insieme e si guardavano come in quella classe del lontano 1969. Finché un giorno Antonio non ricambiò quello sguardo e le chiese: “tu che ci fai in casa mia?”. Maria sentì le ginocchia cedere sotto il peso di quelle parole e capì che era arrivato il momento che tanto temeva: l’amore della sua vita non si ricordava più di lei, o meglio non la riconosceva e le chiedeva dove fosse la sua Maria.

Da allora Maria si prende cura di lui. Dopo i primi tempi in cui cercò di fargli capire che era lei Maria e che erano invecchiati insieme, si arrese al fatto che lui non riusciva ad elaborare quella nuova informazione e smise semplicemente di provarci. Iniziò a parlarli seguendo la sua logica, entrando nel suo mondo, quello in cui lui parla della sua amata e la cerca, e lei lo ascolta in silenzio, nascondendo il dolore.

Quando qualcuno le chiede il perché lei rimanga al suo fianco, aggiungendo che forse sarebbe più facile per lei portarlo in un istituto che si occupa di questi casi, lei risponde così: “Lui non mi lascerebbe mai sola, anche se non potesse raggiungermi. Finché vivrò gli darò il mio amore, anche se non avrò più il suo in cambio. In una piccola parte del suo cuore sicuramente lui sentirà che la sua Maria è accanto a lui, e questo mi basta.”

Antonio non vuole dormire con un’estranea. Lui vuole la sua Maria e si addormenta grazie ai sonniferi, pronunciando il suo nome. Maria piange ogni notte, abbracciando il cuscino, fingendo che sia lui e ricordando quando era bello addormentarsi fra le sue braccia. La mattina si alza e gli prepara la sua colazione preferita e quando lui la ringrazia e le dice che la sua Maria gliela prepara sempre, lei gli risponde: “infatti questa l’ha preparata lei, solo che è dovuta scappare a lavoro e mi ha chiesto di fare in modo che la mangi tutta” e allora lui la mangia, con un grande sorriso stampato sul volto. E Maria si alza ancora la mattina solo per quel sorriso.

Chissà come sarebbe..

Chissà come sarebbe la mia vita se riuscissi sempre a vedere gli errori miei e degli altri attraverso l’ottica buddista, secondo la quale ogni veleno si può trasformare in medicina. Con quanta leggerezza vivrei riuscendo ad avere in ogni istante la lucidità di questo momento, quella consapevolezza che mi riempie di gioia perché mi fa sentire che tutto ha un senso. Tutto tutto.

Come sarebbero le miei giornate se riuscissi a ricordare questo attimo di chiarezza, in cui vedo perfettamente come ogni sofferenza mi sia servita ad arrivare fino a qui?  Sentendo, come lo sento adesso, che non avrei mai potuto capire chi soffre senza attraversare la sua stessa sofferenza. Provando una gratitudine profonda e vera verso chi mi ha ferito e addirittura, sentendo che proprio quella persona è il mio più caro “buon amico”. Questo istante di vita in cui c’è davvero spazio per ognuno nel mio cuore, perché tutti sono utili alla mia crescita. Tutti tutti.

Ma so già che questo momento di illuminazione svanirà presto, risucchiato dalla routine e dalle nuove sfide di ogni giorno. So già che la prossima volta in cui quella persona farà nuovamente qualcosa che mi ferirà, scorderò tutto e dovrò ricominciare daccapo. E allora, lo scrivo. Lascio alla mia me stessa del futuro un post, uno spunto di riflessione a cui aggrapparsi quando, per l’ennesima volta, penserà di strangolare il suo ex a mani nude o di fare un gestaccio a chi la tratta male.

Eli ricorda! Siamo tutti Buddha meravigliosi. Tutti tutti.

(Anche se qualche volta non sembra!)

Il buddismo e le fragole

Cos’è cambiato nella mia vita da quando pratico?

Beh.. chi mi conosce da tanto tempo sa perfettamente che prima di cominciare a recitare Nam Myoho Renghe Kyo ero una persona molto diversa da oggi.

Prima di tutto sono sempre stata molto empatica. Purtroppo ero “malata di empatia”. Non riuscivo a gestirla, non riuscivo a incanalarla verso la creazione di valore. Nella maggior parte delle volte mi paralizzava. La sofferenza degli altri mi feriva e basta. Oggi non è più così. Grazie al daimoku quella sofferenza è diventata il mio motore. Quando arriva, mi metto davanti al Gohonzon e ridetermino di vincere nella vita per me e per gli altri. Inoltre, la mia empatia si fermava al sentire le sofferenze degli altri. Ma le gioie? Niente! Pur avendo avuto la fortuna di non essere mai stata una persona invidiosa, mi mancava qualcosa.. non riuscivo a gioire delle vittorie altrui. Oggi faccio mia la felicità degli altri. Ho moltiplicato in modo esponenziale le mie vittorie, includendo quelle degli altri nella mia.

Un altro cambiamento fondamentale è stata la gratitudine. Prima di cominciare questa meravigliosa pratica il mio soprannome sarebbe potuto tranquillamente essere “Miss Lamentela”. Ero un corvo nero, una vittima del mondo. L’unica che aveva veramente sofferto. Si è vero, ho sofferto.. ma mi aiutava in qualche modo lamentarmi in continuazione? No di certo! Ottenevo solo il risultato di appesantire gli altri. Oggi invece sono grata. Sono grata di vivere, di poter vedere il sole, di aver studiato, di avere degli amici.. di tutto. La gratitudine è l’antidoto alla lamentela. Vivere con gratitudine significa avere sempre un motivo per gioire anziché uno per lamentarsi.

Il terzo cambiamento è per me il più soddisfacente. Studio gestione creativa dei conflitti, disarmo interiore e tutta questa roba da “pacifisti” da quasi dieci anni ormai. Ho sempre creduto profondamente nella nonviolenza e in tutto ciò che ho studiato ma mai sono riuscita a metterlo in pratica come ora. Prima del buddismo erano dei principi bellissimi a cui aspirare. Ma nella concretezza volevo distruggere chi mi feriva. Oggi se qualcuno mi ferisce prima penso di volerlo morto o quantomeno sofferente (meglio se anche sanguinante). Ok.. ci sta.. ma capisco che è il momento di fare daimoku. Una volta che comincio a recitare Nam Myoho Renghe Kyo i miei pensieri si trasformano – il mio cuore si trasforma – e passo dal volere l’infelicità di quella persona a volere la mia felicità, che non coincide con la vendetta.. poi piano piano comincio a sentire la mia vita che si apre e che include la felicità degli altri e comincio a desiderare di non comportarmi mai come quella persona, desidero di avere sempre la saggezza e la compassione necessarie per riuscire a non fare del male agli altri. Infine dopo molto (molto molto molto) daimoku riesco anche a desiderare la felicità della persona che odiavo. Semplicemente perché sento profondamente, con tutto il mio essere e non solo con la mente, che la cattiveria non esiste, è solo sofferenza non accolta e se quella persona mi ha fatto del male, lo ha fatto a causa della sua infelicità e non a causa mia. E lo ha fatto nella sua vita.. non nella mia.

Basterebbero questi tre benefici invisibili della pratica a farmi continuare su questa strada per l’eternità ma in realtà i benefici che derivano dal Sutra del Loto sono infiniti. Davvero.

L’essere diventata una persona che non si arrende mai davanti all’impossibile. Vedere gli ostacoli come opportunità. Potersi prendere cura delle persone. Realizzare prove concrete…

Potrei continuare per altri 10 post ad elencare come la mia vita sia cambiata in meglio ma la verità è che sarebbe come spiegare che sapore ha una fragola, a qualcuno che non l’ha mai provata. Bisogna assaggiarla per conoscerne il sapore. Ecco, il buddismo è come la fragola più gustosa che abbia mai assaggiato.

Provare per credere!

Quello che già sai

Si impara sbagliando.

A camminare, cadendo.

Ad essere grati, soffrendo.

Si impara a vivere, sognando

e ad amare, lottando. 

E poi con il passare del tempo sbagli più spesso, cadi sempre più in basso e soffri fin dentro le ossa. Solo così impari a sognare il domani e a lottare come se non ci fosse. 

La vita ti insegna tutto ciò di cui hai bisogno nel momento cruciale. Arrivato a quel punto devi solo ricordare quello che già sai:

che come sempre ce la farai..

 

 

 

Questo dolore è la mia missione

Seduta sul letto, con il volto rigato di lacrime. Così mi sorprende mia sorella. “Che c’è?”, mi chiede.

“280.” le rispondo. “Sono 280 i morti (ora 291).” E mentre lo dico sento un conato di dolore che mi sale fino alla gola ed esplode in un altro pianto.

Mi guarda triste e mi dice: “Non leggere più niente”.

Non mi capisce. Non riesce a spiegarsi perché continuo a leggere le notizie sul terremoto, io che non ho nemmeno un amico lì e neanche mi trovo in Italia.

Ed forse è proprio questo il motivo. Vorrei essere lì. Vorrei poter dare il mio contributo.

Ho bisogno di questo. Ho studiato tutta la vita per questo. E ho bisogno di sentirlo tutto il dolore. Fino dentro le ossa.

Quando ero ragazzina scappavo dalla mia grande empatia. Stavo troppo male, tanto da diventare schiava di quel demone che chiamano ‘depressione’.

Stavo così male da pesare 38 kili e non avevo la forza di immaginare nemmeno la mia di felicità, figuriamoci quella dell’umanità intera. Finché un giorno il mio psicologo mi disse: “Elisabeth, se sta così male per l’umanità perché non fa qualcosa per aiutarla?”.

Una semplice domanda, solo una semplice domanda che però mi ha dato la forza di abbandonare quel ruolo di vittima che mi ero costruita negli anni.

Il solo pensiero di poter fare qualcosa per cambiare in meglio il mondo mi ha lanciato in orbita. Su quel pensiero ho costruito tutta la mia vita. Ed è quel pensiero che mi permette di guardare e sentire il dolore degli altri, senza lasciarmi schiacciare da esso. Perché non è la sofferenza degli altri che ti opprime ma il senso di impotenza. E io non mi sento più impotente.

Adesso sentire quel dolore non mi spaventa. Anzi, mi aiuta a ridimensionare le mie personali sofferenze. Mi fa sentire partecipe. Mi fa sentire che ci tengo, che ho una missione nella vita. Mi da la spinta per studiare e approfondire per l’esame di dottorato. Mi ricorda perché voglio fare il dottorato, perché proprio una ricerca sull’Educazione in Emergenza. Non per trovare un lavoro ma per creare opportunità di cambiamento lì dove altri vedono solo tragedia e perdita. E per sentire che tutto questo dolore  ha un senso più grande, che nel vuoto creato da questa tragedia, c’è uno spazio nuovo dove possiamo costruire. Ri-costruire. Con nuove fondamenta, riuscendo a creare valore dalla crisi, addirittura facendone emergere il potenziale positivo. Proprio come nei due caratteri dell’ideogramma cinese che rappresentano il termine “crisi” e che significano uno “pericolo” e l’altro “opportunità”.

Seduta sul letto, con il volto rigato di lacrime. Così, esattamente come sono, con questa grande sofferenza negli occhi e nel cuore, ridetermino che questo dolore è la mia missione.

 

 

 

La rincorsa

C’erano solo sogni infranti in quel maledetto cassetto. Le faceva male aprirlo e guardarci dentro eppure ogni tanto doveva farlo per riporvi dentro nuovi sogni o meglio ciò che di essi ne restava. Quel giorno rimase lì a guardarlo per un po’ e la vocina nella sua testa cominciò la solita cantilena: “Eccoti di nuovo qui. Hai visto che avevi ragione? Non sei nessuno e nessuno ti ama.”

Odiava quella vocina e solitamente cercava di non ascoltarla, parlandoci sopra, ascoltando musica o chiamando un’amica per farsi distrarre. Quel giorno, invece, rimase lì immobile e in silenzio. Era la sua oscurità, voleva ascoltarla fino in fondo: “Sei sempre la stessa, credevi di avercela fatta e guardati adesso..”

Ad un tratto si alzò dalla sedia, stava per allontanarsi dal cassetto quando la vocina le gridò: “Lo vedi! Sei tornata indietro!”

Con uno scatto deciso richiuse il cassetto e sorridendo rispose: “Ti sbagli. Non sono tornata indietro.. sto solo prendendo la rincorsa”.

 

 

 

 

 

 

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E ce la farai.

Ce la farai anche se le ombre tornano e i vuoti non si riempiono.
Ce la farai anche se la paura ti paralizza. Anche se il tempo smette di scorrere quando il passato si riaffaccia sul tuo presente.
Ce la farai perché ce l’hai sempre fatta e una volta che hai vinto la prima volta sai che potrai sempre rifarlo.
Ce la farai perché hai ancora sogni da realizzare e posti da vedere.
Ce la farai perché hai un cuore forte, un po’ ammaccato si, ma che resiste.
Ce la farai perché ami nonostante tutto. Ti fidi nonostante tutto. Ti apri nonostante tutto.
Ce la farai perché hai fatto crescere radici dove c’era cemento.

Ce la farai. E non solo per te.

 

CV che sta per curriculum vero (work in progress)

Ho finito di studiare. Devo scrivere il curriculum vitae e cercare il Lavoro. Non che non abbia mai scritto un cv o non abbia mai cercato lavoro ma adesso devo farlo seriamente. Ok! Iniziamo da una semplice domanda: cos’è un curriculum vitae?

E’ la storia formativa e lavorativa della mia vita.. vita che ho vissuto io.. ergo niente di più facile da scrivere per me,  giusto?

No. Niente di più così lontano dalla realtà.

Innanzitutto c’è differenza  – una difficile da intuire – tra curriculum vitae e resume. Inoltre, ci sono un centinaio di tipi di curriculum: funzionale, anticronologico, creativo, americano, europeo..ecc. ecc. Infine, devi riuscire nell’arduo compito di essere sintetico (non più di due pagine) senza sembrare uno sfaticato che non ha fatto molto nella vita e senza saltare tutte le altre esperienze, come il volontariato (“molto apprezzato soprattutto nei paesi anglosassoni”), cercando contemporaneamente di riassumere le cose che hai appreso e gli obiettivi che hai raggiunto in ognuna delle esperienze che citi.

Sembra difficile?

Prova ad aggiungere il desiderio di far arrivare attraverso una semplice lettera di presentazione tutto quello che sei e che sei certa di riuscire a fare e ora dimmi se non ti sembra che fare un curriculum sia di per sé un lavoro.

E in effetti, proprio come un lavoro, richiede tempo, sforzo e volontà.. tutte cose che ho impiegato negli ultimi giorni al fine di preparare un ottimo cv da mandare a New York.

Il risultato non si avvicina nemmeno lontanamente a quello che i migliori siti internet in materia ritengono che sia un ottimo curriculum. Non è sintetico ( cinque pagine è il massimo della sintesi che sono riuscita a fare), non è creativo (non c’è nemmeno una parola colorata), non è accattivante (mi sono annoiata io stessa a leggerlo), non è funzionale (non sono riuscita a capire come caxxo si fa un curriculum funzionale!). Non è un sacco di cose insomma. Non è neanche un curriculum a parer mio.. ma piuttosto un elenco di cose che ho fatto, intervallate da parole che cercano di inserirle nella scatolina giusta (educazione, lavoro, hobbies, ecc.).

E soprattutto non è il curriculum che io vorrei scrivere o vorrei leggere se dovessi scegliere delle persone a cui affidare un lavoro.

Il mio curriculum ideale è molto diverso. Sarebbe più o meno così:

Elisabeth Di Luca

Elisabeth è il nome scelto da mia sorella. Mia sorella si chiama Palma. Già questo dimostra l’amore che provava per me, scegliendo un nome tanto diverso dal suo e da tutti i nomi scelti fino a quel momento nella mia famiglia: nomi di gente morta o in procinto di morire, nomi vecchi o da vecchi, strani e tipicamente oggetto di burle da parte dei compagni di scuola (come Palma, appunto! “E cosa sei un albero?”, “Palma de Majorca??” e così via). Nei miei studi sull’educazione, ho avuto modo di approfondire l’importanza del nome nella programmazione educativa del bambino, che tende a rimanere schiacciato o a rispettare l’aspettativa creata da quella particolare scelta. Io ho rispettato l’aspettativa. Un nome diverso da tutti quelli dati nella mia famiglia mi ha assegnato inconsciamente il compito di essere diversa dalle persone che li portavano. Compito che ho rispettato, nel bene e nel male. Pecora nera della famiglia, piena di tatuaggi e piercing, che ha fatto sesso per la prima volta a 14 anni (ovvero 10 anni prima dell’età media in cui le donne della famiglia Di Luca avevano fatto sesso fino a quel momento), che ha deciso di fare il Liceo Classico interrompendo la tradizione di iscriversi alla Ragioneria (“perché almeno hai un pezzo di carta che ti fa lavorare”) e così via..

Sempre diversa e sempre criticata. E perché ho scelto di iscrivermi all’università – “togliendo braccia per il lavoro” – e poi perché l’ho lasciata per andare a lavorare e nuovamente  quando ho lasciato il lavoro per re-iscrivermi all’università. Oggi sono felice di aver aperto la strada a tutte le altre donne della mia famiglia, che dopo di me hanno avuto nomi moderni  e non collegati a particolari tragedie familiari, che finalmente si masturbano e che quindi hanno una sessualità più sana e soprattutto un po’ più precoce, donne che si iscrivono liberamente alle scuole che più preferiscono e che sono libere di fare scelte sbagliate e cambiare idea più volte.

Di Luca è il mio cognome, quello che mi ha dato mio padre. Quando sono nata non c’era ancora la possibilità di dare anche il cognome della madre, in Italia.. figuriamoci in Sicilia. Non ho preso molto dai Di Luca ma sicuramente  ho preso il meglio. Da mio padre la voglia di lavorare. Mio padre è uno di quegli italiani che è andato a vivere 25 anni all’estero, a fare tre lavori diversi per mettere da parte i soldi necessari ad aprire un’attività in Sicilia. Dal niente ha creato un’azienda che prima della crisi andava molto più che bene. Mio nonno, invece, mi ha lasciato la nonviolenza. Nella Sicilia degli anni 40, veniva preso in giro da tutti i compaesani perché non picchiava i figli. E lui non se ne curava minimamente. Neanche con un dito, li toccava.

Via X, n. 0 Pisa

A Pisa ci sono arrivata per amore. Amore per il mio ex fidanzato che voleva tornare in Italia (vivevamo a Brisbane, in Australia) e amore per lo studio. Avevo deciso di iscrivermi all’Università e un’amica del mio ex mi parlò di Scienze per la Pace: fu amore non appena vidi il piano di studi. A Pisa mi sono sentita a casa per molti anni. Adesso però sento che è arrivato il momento di andare via, spiccare il volo.

elisabeth_diluca@hotmail.it

Questa è la mia mail “professionale” ma la mia vera mail è “elisabeth_peace@hotmail.com”. Lo è stata da sempre, sin da quando ancora si chattava su Messenger di MSN e ci volevano quattro minuti per connettersi ad internet.

380/xxxx060

Il mio numero storico, avuto con il primo cellulare passatomi da mio padre: un Motorola durato ben dieci anni.  Un cellulare che ho rimpianto, una volta rottosi, e che continuo a rimpiangere. Dopo quello, infatti, ne ho avuti altri tre in due anni, tutti di mio padre e tutti “usa e getta”. Finalmente l’anno scorso ho comprato un cellulare nuovo, touch, che ha whatsapp.. e che  va molto peggio di tutti gli altri!

…cos’altro? Mmm.. ci penso e vi faccio sapere!

Sarili

Oggi rivedendoti mi sono ricordata di questo messaggio che mi hai mandato qualche anno fa.. E mi è scappata una lacrima..

Credo di doverti un gran grazie.
Uno di quelli che non si scordano,
uno di quelli che non si perdono,
ma uno di quelli che invecchiano con te,
che con il tempo ingialliscono,
che catturano ogni odore e sfumatura della tua vita.
Che ti accompagnano nel cuore,
in ogni tuo sbaglio
o in ogni tua passione.
Non ho saputo trovarne uno
neanche tra pazzia e razionalità.
Provo a scrivertelo
in rime che non sono tali.
Grazie per avermi reso la persona che sono.

Come il fiore di loto

Un singolo istante. Un solo piccolissimo istante è tutto ciò che serve.

L’istante in cui decidi di vincere e vinci.

E la magia inizia.

Ricominciano le risate a crepapelle, i sogni, il batticuore. Tutto si rimette in moto nel tempo di un battito di sopracciglia. E riprendi fiato, dopo un tempo che sembrava infinito.

Vita come sei meravigliosa! Io come sono meravigliosa!

Mi ringrazio per aver lottato tutta la vita, per aver sperato e pianto, per aver amato e odiato. Grazie per l’indignazione di fronte all’ingiustizia e per l’empatia di fronte alla sofferenza.

Grazie a me di amarmi anche quel poco che basta per respirare, e ancora grazie quando mi amo tanto da alzarmi dal letto. E per tutte le volte che non ho perso un’occasione per risalire dal fondo, per le volte in cui l’ho toccato ma non mi sono arresa.

Mi ringrazio di esserci anche quando non ci sono. Grazie di aver studiato solo nel ricordo di quanto amavo farlo, e di aver dipinto per lo stesso motivo. Grazie di aver lavorato, di aver recitato..

Grazie a me di esistere e soprattutto di continuare a farlo anche quando non vorrei; di essere come il fiore di loto che, pur crescendo nella melma, non si lascia sporcare.

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Un barlume di fede

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Non mi resta che una briciola di fiducia nella vita. Un puntino luccicante in un mare di nero e rosso.

Ho solo una goccia di fede, una scintilla di speranza.

Eppure, anche il più grande degli oceani è formato da gocce e persino l’incendio più devastante ha origine da una piccola scintilla.

E allora trasformerò questo barlume di fede che mi resta – in me,  in noi  e nella pratica -nel faro che mi guiderà in questo periodo buio.

O almeno.. ci proverò!

Come ossigeno per l’anima..

Il mio universo in gabbia

Ci sono persone che quando ti vivono, ti risucchiano le energie come se tu fossi la loro presa della corrente elettrica.

Ce ne sono altre che esistono, tu lo sai.. ma non le senti vivere. Sono soprammobili dell’esistenza. Carini da vedere ma inutili come un secchio vuoto nel deserto.

Altre ancora, sono come cibo avariato. Le loro parole ti procurano la nausea, un rigurgito del cuore.

E poi..

..poi ci sono persone che sono come il pane quotidiano. Le mangi senza aspettative, ma sono buone come solo le cose semplici sanno essere.

Persone che sono come ossigeno per l’anima. Le respiri con avidità, come quando apri la finestra e prendi aria a pieni polmoni, per liberarti dal cattivo odore.

Aria

E io che fame e che voglia di respirare ho..

…quindi grazie Vita per il mio pane quotidiano, per l’aria che respiro ma soprattutto grazie per le persone che posso mangiare e respirare quando la mia anima è affamata e ansimante.

Solo con l’esempio..

Se chiudo una relazione con un uomo che mi urla addosso e mi insulta, non sono esagerata. No, non odio gli uomini. No, non sono un “guscio vuoto” che non sa aprirsi.

Non posso permettere a nessun uomo di mancarmi di rispetto.

Non solo non voglio ma non posso. Davvero, non posso permettermelo.

Se lo permettessi, se credessi veramente che ci puó essere una giustificazione, qualcosa che io ho fatto per “scatenare” urla e insulti, per meritarmi questa “reazione”, come potrei insegnare a mia nipote o alle mie future figlie che nessuno le può maltrattare?

Non posso lasciar credere a mia nipote che un suo errore la potrebbe rendere meritevole di ricevere insulti o grida o peggio. Che esistono livelli di violenza “accettabili”. Non posso.

Devo, invece, insegnarle che puó andare in giro con una minigonna senza sentirsi stuprabile. Che puó litigare con il fidanzato senza aver paura di meritarsi le sue “reazioni”. Che può rifiutare un uomo senza che debba sorbirsi le sue urla e i suoi insulti. Devo insegnarle che si merita rispetto a prescindere da ciò che indossa, fa o dice. E non posso insegnarle niente se non con il mio esempio.

La vita a colori..

loto

Non hai molto tempo per scrivere sulla vita quando cominci a viverla ed è quello che è successo a me.

Le giornate sono diventate lunghissime ma troppo piene e le notti si sono accorciate perché il tempo vola quando sei fra le braccia di qualcuno che ami.

Troppa vita da dipingere, da amare, da sentire fin dentro le ossa.

Il risultato di queste settimane di vita vissuta con ogni mio senso sono due “occhi sognanti”, che mia nipote Cristina non fa altro che prendere in giro, e un bel po’ di pittura sulle mani e sui vestiti.

E si, anche qualche dipinto.. un po’ di vita a colori!




“Canta, fischia, tamburella le dita sul muro..”

Mi avevi detto di cantare piuttosto che fare cattivi pensieri.
E l’ho fatto. Ogni giorno da allora. E continuo a farlo.

Figlia di quel tuo consiglio, delle pagine del mio diario
e di qualche licenza poetica, questa canzone è il mio ultimo regalo per te.

Un giorno, forse, ne ascolterai anche la melodia..

Hurting hugs.. and hearting hugs.

You arrive.
I blackout.
I am ice
to leave you out.

In my chest,
an empty hole.
Long way
to reach my soul.

My body knows more,
something I still ignore.
He protects me from hugs which hurt.
Too bad, though, I hug with my heart.

I am ice,
but it doesn’t mean
that I don’t care
or I don’t feel.

I hug
with my heart,
cause I am afraid
to fall apart.

Cause my body knows more,
something I still ignore.
He protects me from hugs which hurt.
Too bad, though, I hug with my heart.

You understand
what I felt.
You kiss my lips
and the ice melts.

Reading fairy tales
on your bed,
without a reason
it hurts so bad.

Cause my body knows more,
something I still ignore.
He protects me from hugs which hurt.
Too bad, though, I hug with my heart.

I know
that I freaked out.
Please don’t go
we can sort it out.

I have a fear
to overcome,
but please stay here
and be my home.

In attesa di avere una chitarra tutta mia.. ecco la prima strofa e il ritornello: https://www.dropbox.com/s/n8navwi6ilvbw00/prima%20strofa%20e%20ritornello.mp3?dl=0

Cuore di pentola

cuore di pentola

Ho deciso che non sarò un riccio che si chiude per paura. Ho deciso che nella strada della vita correrò, invece di nascondermi, perché a richiudersi si finisce schiacciati dalla sofferenza.

Ho deciso che non sarai l’ennesimo “no” della mia vita, che non sarai l’ennesima sconfitta. Ho deciso che sarai solo un momento, un passaggio verso altro.

Ho deciso che prenderò tutto il bene e lascerò la sofferenza a chi non può farne a meno. Io, per la prima volta, so farne a meno.

Ho deciso che ti amerò, non come avrei voluto ma come posso. Come si amano certe cose effimere ma preziose. Come il fiore che raccogli, pur sapendo che morirà nell’attimo stesso in in cui diventa tuo.

Ho deciso che un sorriso e una canzone sono ciò che ti lascerò, grata per quello che è stato e senza rancore per ciò che non sarà.

Siamo un’occasione persa.. o forse no!

Non volevo eternità, né desideravo un “noi”.
Volevo solo dare come non ho dato mai.
Avrei voluto donarti l’emozione nella mia voce quando parlo di te, i sospiri e le mani che tremano.
Avrei voluto regalarti le mie parole in una canzone e tutte le volte che sorrido pensando a te.
E avrei voluto farlo, pur sapendo che non avresti avuto niente da darmi.
Rifiutare un dono fa molto più male che ricevere senza donare niente in cambio.

Mi dispiace. Tanto.
Mi dispiace per me. Era la mia occasione di dare per la gioia di farlo, senza aspettative o gabbie.
E mi dispiace per te. Era la tua occasione di ricevere dopo tanto dare.
Mi dispiace per tutti e due, perché siamo un’occasione persa.
O forse no. Forse la nostra occasione sarà capire come mai tu, proprio tu che riesci ad amare il mondo e ad innamorarti dell’amore ogni giorno, non sei riuscito ad innamorarti nemmeno per una volta di me, proprio di me che non ho mai amato neanche per una notte.

San Valentino all’IKEA

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“Toc toc”. Così il cellulare mi avvisa che una nuova mail è arrivata. Sto studiando. Lascio stare. No, anzi no! Potrebbe essere importante (ma quando mai????)! Apro e leggo: “Cena di San Valentino”. E’ una pubblicità dell’IKEA. E’ un pugno dritto in faccia. No peggio! E’ fastidio, come quello che si prova grattando una forchetta su un piatto. Ma perché odio così tanto questo giorno?

San Valentino, il santo degli innamorati. O meglio il martire degli innamorati, che fu anche decapitato. Cominciamo bene. Ma andiamo con ordine.

Valentino era un vescovo della metà del 200. Un tipo che se ne andava in giro, riconciliando le coppie di innamorati in lite e addestrando i piccioni a scambiarsi gesti d’affetto, per ispirare l’amore nei giovani. Una specie di Cupido cristiano. E come ogni buon cristiano dell’epoca fu perseguitato, torturato e decapitato. Che allegria! Dopo un paio di secoli, ad un certo Gelasio, il boss della Chiesa dell’epoca, gli venne in mente di sostituire una festa pagana sulla fertilità, la Lupercalia, con la festività religiosa dedicata a San Valentino. Ancora non c’erano bigliettini romantici e cenette a lume di candela. Per quelli dobbiamo aspettare un bel po’ e passare per il medioevo e l’amor cortese fino alla fondazione dell’Alto Tribunale dell’Amore, a Parigi il 14 febbraio del 1400, nel quale i giudici venivano selezionati in base alla loro capacità di comporre poesie d’amore. Finalmente, a metà del 1800, arrivarono i primi biglietti d’amore – le valentine – e alcuni imprenditori statunitensi, annusando l’affare, cominciarono a produrli su scala industriale! E da lì, iniziò una vera e propria commercializzazione della ricorrenza fino ai nostri giorni. Giorni in cui puoi fare la cena di San Valentino anche all’IKEA!

Ok! Dopo la premessa storica (e che storia!), vorrei capire perché mi da così tanto fastidio questa giornata dedicata agli innamorati? Ipotizzo..

A: Potrebbe essere la mancanza di un fidanzato!!

No, Eli, non credo. Non hai mai festeggiato San Valentino neanche nei 17 anni della tua vita in cui non riuscivi a restare single neanche per una settimana.

B: Potrebbe essere perché non credi nell’Amore, proprio quello con la A maiuscola!

Nemmeno. Si, sono stata il Grinch dell’amore per tanto tempo e non voglio sposarmi o convivere ma all’Amore ci credo. Dove “credere” è la parola chiave. Non so se esiste, perché non l’ho mai provato, ma ci credo. Ho fede.

C: Potrebbe essere un retaggio del tuo periodo adolescenziale filo-comunista, nel quale hai profondamente odiato gli Stati Uniti e il loro colonialismo culturale.

Potrebbe, ma San Valentino non è propriamente una festività statunitense.

D: Potrebbe essere il profondo disgusto per tutto ciò che è mieloso e diabeticamente romantico.

Si.. ci sono quasi, lo sento.

E: Potrebbe essere.. anzi, è proprio lo sprezzo per la costruzione favolistica e soprattutto irrealistica dell’amore!

Eccolaa!! La causa che genera il mio disprezzo per il 14 di febbraio. Non è così che voglio l’amore. Non voglio che sia cenette e cioccolatini. Non voglio rose rosse (io odio le rose!) e biglietti musicali. Non voglio rime alla “Ti amo e ti adoro come la pappa con il pomodoro”.

Quello che voglio è la quotidianità e non un giorno all’anno. E non una quotidianità qualunque o una convivenza che diventa routine. Voglio la presenza. L’essere casa, al di là delle quattro mura. Voglio un abbraccio che sia una coperta e non una gabbia. E poi voglio l’esatto opposto di ciò che raccontano le favole. Ho già avuto il mio principe azzurro e le grandi gesta d’amore, le serate a cena fuori e i grandi mazzi di rose. E li ho odiati. Nel profondo. Così come odio San Valentino.

E ora che ho capito perché odio questa festività.. cosa farò il 14 febbraio di quest’anno?

Mmm.. ci penso e vi faccio sapere!


P.s. Non cercatemi all’IKEA!

Dentro un universo e universo dentro

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Intere galassie nascono ed esplodono dentro di me. Cieli stellati e tramonti. Tempeste e incendi. Sono fatta degli stessi atomi di cui sono fatte le stelle. Sono come gli altri, fatta della materia del tutto ma unica allo stesso tempo, nel modo in cui ne esprimo realtà manifesta. Sono dentro un universo e sono un universo dentro. Sono un miracolo. Siamo un miracolo, amica mia.

Perché non riusciamo a sentirci tali, allora? Questa è l’ignoranza fondamentale di cui parla il buddismo: ignorare di essere “vita”.

Poiché la vita è meravigliosa, noi siamo meravigliose. Esattamente così come siamo. Anche se ci sentiamo “mai abbastanza”, anche se non ci amiamo. Anche quando sentiamo di avere una data di scadenza addosso. Anche se vogliamo un figlio senza un uomo e un uomo senza legami. Anche se facciamo tutto al contrario, se abbiamo le farfalle nello stomaco pensando al lavoro e l’attacco di panico se ci piace qualcuno. Anche se ci sentiamo dei punti interrogativi  e vorremmo risposte senza conoscere le domande. Anche quando non vorremmo essere come siamo.

Cara amica mia.. cara Elisabeth, sai che c’è? C’è che non so davvero come fare a non essere come sono e mi sono stancata di cercarne il modo. Smetti anche tu di farlo e abbracciati per quello che sei: un universo di caos, un miracolo e una grandissima scassa cazzi!