Con l’infinito dentro

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La enfermedad me quitó la fuerza física, me privó de mi tiempo y de mi ritmo frenético. Se impuso sobre mi alma y mi cuerpo, obligándome a ser tocada, cortada, abierta y cosida por manos desconocidas. Me erosionó lentamente, borrando lo que era. Y ahora estoy aquí, obligada a reconstruirme, a reinventarme, a darme nuevos ritmos. Ahora tengo que dedicarme tiempo y darme espacio aunque todavía no sepa cómo hacerlo. Poco a poco empiezo a reevaluar mis elecciones, a reconsiderar lo que creía importante. La enfermedad te quita tanto que te obliga a apreciar lo que queda: deseos, pasiones, sentimientos, amistades. Y luego, cava un vacío en tus días para que tú veas los demonios de los cuales escapaste toda tu vida, primero entre todos el miedo a vivir.

Frente a monstruos tan grandes, lo único que puedes hacer es luchar o dejarte llevar, pero no puedes decidir qué hacer una vez por todas. No, no es una elección de un instante, sino una elección de cada momento, de cada día. Ese es el verdadero desafío: relanzar continuamente contra cada duda, cada miedo, cada sombra que serpentea en tu mente. Contra esa vocecita que te dice como nunca serás de nuevo sana, más fuerte, más enérgica, y que te hace temblar con cada punzada de dolor, gritando esas malditas cuatro palabras: “será así para siempre”.

Luchas o mueres, pero no de cáncer… de miedo.

Lo único que puedes hacer contra el miedo es soñar. Y así sueño. Sueño con todo mi corazón y todo mi cuerpo. Sueño con una Elisabeth fuerte y libre, que corre de nuevo, que viaja por todas partes, que se sienta en el suelo con sus niños en un campamento de refugiados o en una aldea perdida en una selva, tal como era antes.

Sueño con una Elisabeth que se ama y ama el mundo. Una Elisabeth con el infinito dentro de sí. La sueño y la pinto.

Volver a soñar es mi primera ACCIÓN…


La malattia mi ha tolto le forze fisiche, mi ha privato del mio tempo e dei miei ritmi frenetici. Si è imposta sulla mia anima e sul mio corpo, costringendomi a essere toccata, tagliata, aperta e ricucita da mani sconosciute. Mi ha erosa piano piano, cancellando quella che ero.

E ora sono qui, costretta a ricostruirmi, a reinventarmi, a concedermi ritmi nuovi. Adesso devo dedicarmi tempo e darmi spazio anche se non so ancora come si fa. Inizio piano piano a rivalutare le mie scelte, a riconsiderare ciò che credevo importante. La malattia ti toglie così tanto che ti costringe ad apprezzare quello che resta: i desideri, le passioni, i sentimenti, le amiche vere, la pratica. E poi scava il vuoto nelle tue giornate per farti vedere i demoni da cui sei scappata tutta la vita, prima fra tutte la paura di vivere.

Davanti a mostri così grandi l’unica cosa che puoi fare è lottare o lasciarti andare, ma  non puoi decidere cosa fare una volta per tutte. No, non è una scelta di un istante, ma una scelta di ogni istante, di ogni giorno. E’ quella la vera sfida: rilanciare in continuazione contro ogni dubbio, ogni timore, ogni ombra che serpeggia nella tua mente. Contro quella vocina che ti racconta come non sarai mai più sana, forte, veloce, energica, e che ti fa tremare ad ogni fitta di dolore, sibilandoti quelle maledette quattro parole: “sarà così per sempre”.

Lottare o morire, ma non di cancro. Di paura.

Contro la paura l’unica cosa che puoi fare è sognare. E così sogno. Sogno con tutto il cuore e con tutto il corpo. Sogno una Elisabeth forte e libera, che corre di nuovo, che viaggia in lungo e in largo, che si siede a terra con i suoi bambini in un campo profughi o in un villaggio sperduto nella foresta, proprio come una volta. Sogno una Elisabeth che si ama e che ama il mondo. Una Elisabeth con l’infinito dentro.

La sogno e la dipingo.

Tornare a sognare è la mia prima azione…

 

 

 

Oración informal/Preghiera informale

Querido Universo (o Ley Mística / Dios / Alá / campo de energía / fuerza vital / etc.) por favor, escúchame.

Quiero un trabajo pero no sé cómo ni dónde. Confío en ti para la elección, solo permíteme poner mis habilidades al servicio de quién más lo necesite.

Quiero también una familia. Incluso en este caso no tengo preferencia: un compañero o una compañera (o ambos), hijos adoptivos o no, hazlo un poco como quieres. Solo te pido que me uses para dar amor a los que no son amados, esperanza a los que se sienten impotentes y confianza a los que se sienten inútiles.

Para terminar, quiero un último favor: la paz en el mundo. Sobre como y cuando realizarla, sabrás tú –  mucho mejor que yo – qué hacer, pero dame la fuerza para luchar contra la injusticia y la compasión para perdonar a los que siembran el odio. Y ya que estás ahí, dame el coraje para iluminar mi oscuridad y la sabiduría para entender como ser el cambio que quiero ver en el mundo.

No te he pedido demasiado, ¿qué te parece?

Mientras tanto, te lo agradezco de antemano y muchos saludos.

Amén


Caro Universo (o Legge Mistica/Dio/Allah/campo energetico/forza vitale/ecc.) ti prego, ascoltami.

Voglio un lavoro ma non so né come, né dove. Mi affido a te per la scelta, permettimi solo di mettere le mie capacità a servizio di chi ne ha più bisogno.

Voglio anche una famiglia. Anche in questo caso non ho preferenze: un compagno o una compagna (o entrambi), figli adottivi o no, fai un po’ te. Ti chiedo solo di usarmi per dare amore a chi non è amato, speranza a chi si sente impotente e fiducia a chi si sente inutile.

Infine, voglio un ultimo piccolissimo favore: la pace nel mondo. Sui tempi e i modi saprai tu – molto meglio di me – cosa fare, però dammi la forza per lottare contro le ingiustizie e la compassione per perdonare chi semina odio. E visto che ci sei, dammi anche il coraggio per illuminare la mia oscurità e la saggezza per capire come essere il cambiamento che voglio vedere nel mondo.

Non mi sembra di chiedere troppo, che ne pensi?

Intanto ti rinfrazio anticipatamente e tanti cari saluti.

Amen.

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Quel cammino tra l’inizio e la fine. Di nuovo.

Non mi piacciono gli addii, i finali e i “vissero felici e contenti”. Non amo neanche i nuovi inizi, i cambiamenti o le grandi rivoluzioni.

Mi piace cosa sta in mezzo. Il cammino tra l’inizio e la fine. Adoro la quotidianità, la routine. Il sentirmi a casa. Mi interessa più il processo che il risultato.

Ho sempre fatto il salto quando era necessario buttarsi. Spicco il volo ogni volta che serve ma non vedo l’ora di atterrare e tenere di nuovo i piedi ben piantati per terra. Le trasformazioni mi spaventano. Mi terrorizza quello che non conosco. Eppure non mi sono mai tirata indietro.

In trentun anni ho vissuto in otto città, in quattro nazioni di tre continenti diversi. Ho fatto dieci traslochi. Ho cambiato facoltà due volte. Lavoro otto. Ho avuto diversi fidanzati e fidanzate. Ho convissuto per sei anni e ho scampato il matrimonio per un pelo. Mi sono buttata con il paracadute da quindici mila piedi e sono rotolata da una collina, dentro una palla di gomma. Ho visitato quasi venti paesi e ho assaggiato ventitré tipi di cucina diversi. Sono stata cristiana per quattordici anni, agnostica per dieci e sono buddista da sette. Ho imparato tre lingue diverse dalla mia e ho iniziato a studiare canto e chitarra a trentun anni.

Ho fatto e cambiato così tante cose che mi sembra di aver vissuto mille vite. Chi mi conosce non può credere che io abbia paura dell’ignoto; che anche io abbia difficoltà a lasciare la mia zona di comfort. Eppure è proprio così. Ma allora perché sono riuscita a fare tutto quello che ho fatto? Perché ho abbandonato le mie certezze e sono riuscita a vincere la paura di perdere tutto? La paura di sbagliare, di cambiare, di stare da sola?

La verità è che ho avuto un unico vantaggio nella mia vita. Un unico espediente che mi ha portato ad uscire dal guscio protettivo dell’abitudine e della familiarità: la sofferenza.

Si, è stata la grande sofferenza che ho provato fin da piccola a spingermi alla ricerca continua di me stessa. Il vuoto che ho nel petto da quando ho memoria di me è stato il motore più potente della mia rivoluzione umana e lo è tutt’ora.

La depressione di cui ho sofferto in adolescenza è stata la mia via d’uscita da un percorso già scritto per me, dalla società in cui ero cresciuta: un diploma, forse una laurea – giusto per poterla sfoggiare con i compaesani – e certamente un lavoro vicino casa fino al matrimonio con il primo amore, coronato da una o più gravidanze. Questo era il futuro che mi aspettavo. Che tutti si aspettavano da me. Il futuro che credevo di volere. Ma la vita aveva altro in serbo per me.

Solo che è difficile abbandonare le aspettative, i sogni da bambina e tutto ciò che ci è familiare. E’ dura percorrere strade non asfaltate, spesso piene di dossi e pericoli. Scegliere il cammino più difficile non è semplice. Allora, proprio come una madre compassionevole sgrida il figlio quando sbaglia, la vita mi ha dato una bella spinta. Una nuova partenza, azzerando tutto. Si perché come dice una mia cara amica, la depressione è uno zero dell’anima. O di sicuro lo è stato per me.

Da quello zero ho ricostruito tutto. Ho ricostruito me stessa, i miei sogni e il mio cammino. E per farlo ho dovuto fare il mio primo salto nel vuoto, nel mio personale buco nero. Il primo viaggio è stato il più importante: quello alla ricerca di me stessa, per guardarmi dentro e guardare in faccia il mio dolore.

Vorrei poter dire che da allora il cammino è stato in discesa, ma non è così. Ad ogni nuova partenza o sfida che mi si presenti, la paura torna sempre. Il disagio, la mancanza di equilibrio sono i miei primi compagni di viaggio. E quando la resistenza al cambiamento è troppo forte, la vita torna con i suoi scossoni compassionevoli.

E’ una lotta. Eterna. E decisamente impegnativa. Ma realizzabile. E con tempi di ripresa sempre più rapidi, con soddisfazioni sempre più grandi e passi sempre più lunghi. Adesso, ogni volta che si presenta una novità o un ostacolo che mi costringe ad uscire dal mio guscio sicuro, l’accolgo come l’ennesima opportunità che la vita mi sta dando per aprirmi al mondo, per migliorarmi e superare i miei limiti.

E infatti miglioro, supero i limiti e allargo la zona di comfort. Affronto tutto con coraggio e poi torno a casa, a godermi ciò che sta tra la fine di un’avventura e l’inizio della successiva: un buon libro sul divano e una tazza di cioccolata!


Da quando ho scritto questo post (27 novembre 2016) sono passati quasi due anni, un’incredibile esperienza nei campi profughi in Libano, tre relazioni, un cancro, due operazioni, la radio e tantissimo lavoro sia professionale che interiore. Eppure ancora una volta mi trovo a dover ricominciare tutto da capo: affrontare di nuovo la malattia, in un’altra città di un altro Paese, con un lavoro diverso e senza la persona che in teoria era il mio compagno.

Di nuovo la lotta, di nuovo la paura. E se anche una parte di me sa che vincerò – come sempre-, il più grande sforzo consiste nel cercare di ignorare quella vocina che striscia come un serpente fra i pensieri e le cose da fare, sussurrando “questa volta non ce la farai!”. E allora rileggo di tutte le volte che ho combattuto per la mia felicità, con le unghie e con i denti, anche quando non ci credevo, anche quando ero stesa su un letto paralizzata dal dolore, anche quando credevo di aver perso l’amore o peggio quando credevo di non meritarlo. E così scopro che questo blog non serve per condividere le mie lotte con gli altri, per incoraggiare le mie amiche o per farle ridere. Non solo. Serve soprattutto a me stessa. Un inno alla forza, per ricordarmi chi sono.

Io sono una vincitrice.

E anche questa volta prenderò questa sofferenza e ne farò un capolavoro.

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No me gustan las despedidas, los finales y “vivieron felices para siempre”. Ni siquiera me gustan los nuevos comienzos, los cambios o las grandes revoluciones. Me gusta lo que está en medio. El camino entre el principio y el final. Amo la vida cotidiana, la rutina. Sentirse como en casa. Estoy más interesada en el proceso que en el resultado. Siempre he saltado cuando era necesario saltar. Me echo a volar cuando es necesario, pero no puedo esperar para aterrizar y mantener mis pies firmemente plantados en el suelo nuevamente. Las transformaciones me asustan. Me asusta lo que no sé. Sin embargo, nunca me eché atrás. En treinta y cuatro años viví en nueve ciudades, en cinco países de cuatro continentes diferentes. Hice trece mudanzas. He cambiado el curso de mis estudios de universidad dos veces. 10 veces el trabajo. Tuve varios novios y novias. Viví con una pareja durante seis años y me escapé por un pelo de la boda. Me lancé con el paracaídas desde quince mil pies y rodé desde una colina dentro una pelota de goma. Visité más de veinte países y probé veintitrés tipos diferentes de cocina. Fui cristiana por catorce años, agnóstica por nueve y soy budista desde diez. Aprendí tres idiomas más y comencé a estudiar canto y guitarra a los treinta años. He hecho y cambiado tantas cosas que siento que he vivido mil vidas. Los que me conocen no pueden creer que tengo miedo de lo desconocido; Que también me cuesta salir de mi zona de confort. Y, sin embargo, es realmente así. Pero entonces, ¿por qué he logrado hacer todo lo que hice? ¿Por qué abandoné mis certezas y logré superar el miedo a perder todo? ¿El miedo a cometer errores, a cambiar, a estar sola? La verdad es que tenía una ventaja en mi vida. Un solo recurso que me llevó a salir de la cáscara protectora del hábito y la familiaridad: el dolor. Sí, fue el gran sufrimiento que sentí de niña que me llevó a esforzarme en una búsqueda continua de mí misma. El vacío en mi pecho que siento desde que tengo memoria de mí, fue el motor más poderoso de mi revolución humana y todavía lo es. La depresión que sufrí en la adolescencia fue la salida de un camino que estaba ya escrito para mí por la sociedad en la que crecí: un diploma, tal vez un título universitario, solo para mostrarlo con los demás ciudadanos, y ciertamente un trabajo cerca de casa hasta el matrimonio con el primer amor, coronado con uno o más embarazos. Este era el futuro que esperaba. Que todos esperaban de mí. El futuro que pensaba querer. Pero la vida tenía algo más reservado para mí. Solo que es difícil abandonar las expectativas, los sueños de niño y todo lo que es familiar. Es difícil recorrer caminos no asfaltados, a menudo llenos de baches y peligros. Elegir el camino más difícil no es fácil. Entonces, al igual que una madre compasiva regaña a su hijo cuando comete un error, la vida me dio un buen impulso. Un nuevo comienzo, poniendo a cero todo. Sí, porque como dice una querida amiga mía, la depresión es un cero del alma. O seguro que eso fue para mí. A partir de ese cero lo reconstruí todo. Reconstruí mi identidad, mis sueños y mi camino. Y para hacer esto tuve que dar mi primer salto al vacío, a mi agujero negro personal. El primer viaje fue el más importante: aquello en busca de mí misma, para mirar hacia adentro y enfrentar mi dolor. Me gustaría decir que desde entonces el viaje ha sido cuesta abajo, pero no es así. A cada nueva partida o desafío que se me presenta, el miedo siempre regresa. La incomodidad, la falta de equilibrio son mis primeras compañeras de viaje. Y cuando la resistencia al cambio es demasiado fuerte, la vida regresa con sus sacudidas compasivas, y me trae otros desafíos come el cáncer: mi gran maestro. Es una lucha. Eterna. Y definitivamente desafiante. Pero alcanzable. Y con tiempos de recuperación cada vez más rápidos, con satisfacciones cada vez mayores y pasos cada vez más largos. Ahora, cada vez que hay algo nuevo o un obstáculo que me obliga a abandonar mi cáscara segura, le doy la bienvenida como otra oportunidad que la vida me brinda para abrirme al mundo, para superarme y superar mis límites. Y de hecho mejoro, supero los límites y amplío la zona de confort. Me enfrento a todo con coraje y luego me voy a casa, para disfrutar de lo que hay entre el final de una aventura y el comienzo de la siguiente: ¡un buen libro tumbada en el sofá y una taza de chocolate!

Tirando le fila del blog (lavori in corso)

Stava male. Non riusciva a pensare a nient’altro che a questo. Beh, a questo e anche al suo libro. Sin da quando aveva memoria di sé, aveva sempre saputo che c’era un libro dentro di lei. Non che si credesse una scrittrice o qualcosa di simile, come una blogger o una giornalista. No, no, niente di tutto ciò. Solo che custodiva dentro di sé una storia che andava raccontata, e quale miglior modo di raccontarla se non con un libro?

Che storia? Non lo sapeva e stava male anche per questo. Oltre che per mille altre buonissime ragioni. Si, perché lei non era una di quelle che soffrono per un esame andato male o per un’ammaccatura sulla macchina.  E’ vero che la sofferenza è sofferenza sempre, ma diciamocelo, alcune volte si soffre proprio per delle cazzate! Che so, per una persona che ti insulta sull’autobus o per una donna che ti provoca invidia per quanto è bella, mentre tu sei alta un metro e 62 (sulla carta di identità, se ti va bene!), hai i capelli che sembrano quelli delle barbie a cui hai fatto e rifatto lo shampoo da bambina e le uniche forme che ti ritrovi sono quelle di formaggio con cui ti sfondi a pranzo e a cena (e durante lo spuntino di mezzanotte).

Ma lei no, non si accontentava di soffrire superficialmente. Come per ogni cosa che faceva, andava fino in fondo. E infatti lei soffriva perché sentiva il mondo. O meglio sentiva il mondo quando soffre. Poi aveva anche il cancro e una famiglia che al confronto quella degli Adams sembra il mulino bianco, ma queste erano bazzecole se paragonate al buco che le squarciava il petto e che lei chiamava il vuoto.

Per un periodo della sua vita, durante l’adolescenza, non era riuscita a gestire il suo “sentire” e così aveva iniziato a bere e a fumare erba. Ma era troppo intelligente per non capire che quei sotterfugi non duravano abbastanza e che poi le presentavano un conto molto amaro, fatto di mal di testa, vomito e vuoti ancora più profondi. Così smise, con la stessa lucidità con cui aveva iniziato, e cominciò la sua ricerca di una luce in fondo a quel tunnel, una luce che non fosse solo un miraggio provocato da alcool e stupefacenti.

Il primo esperimento fu, ovviamente, l’amore. Penserete “che banalità!”, e lo pensava anche lei in realtà. Qualcosa nelle favole e nei romanzi d’amore non l’aveva mai convinta del tutto, e non sto parlando solo della storiella del ranocchio (palese tentativo di convincere le belle donne che anche i cessi possono renderle felici) ma dell’attesa. Proprio così, l’attesa. Fateci caso: che si tratti di favole o di film, c’è sempre una donna (raramente un uomo) che aspetta o di essere salvata dalle grinfie di qualche regina cattiva (anche qui raramente uomini cattivi… seriamente????) o di ricevere una qualche prova che le restituisca la fiducia nell’amore (solo dopo che il principe di turno ha involontariamente fatto cadere il suo cuore nel tritarifiuti). Ben presto, infatti, si era resa conto che questa storia dell’attesa era una grande fregatura per le donne, perché mentre loro si fermavano ad attendere la trasformazione (ahimè, spesso solo interiore) del ranocchio, gli uomini andavano avanti e le superavano sul lavoro, e non solo: mostravano la loro spada lucente a molte più principesse di quelle che effettivamente salvavano!  E le donne? Addormentate! in tutti i sensi.

Ad ogni modo l’esperimento fu un fallimento totale, che provò a ripetere più volte nel corso degli anni ma con risultati sempre più deludenti, seguendo lo schema di una relazione inversamente proporzionale: più lei si impegnava (e si impegnava tanto, per dio! Fino alla fine, come in ogni cosa che faceva) più l’altro se ne fregava. Anziché un antidoto contro il vuoto cosmico che le procurava la sofferenza degli altri, otteneva un veleno ancora più potente. Così, un giorno decise che se non poteva smettere di sentire il dolore del mondo allora lo avrebbe salvato. E come sempre giù per una strada fino in fondo: volontariato, lauree, lavoro, master, tirocini, missioni in luoghi sperduti e pericolosi, dottorato: tutto secondo un progetto logico e ben pianificato, con il fine ultimo di fare la differenza.

Povera illusa.  Come poteva credere davvero che l’universo le avrebbe permesso di dedicare tutte le sue energie in una missione suicida? Non è possibile salvare nessuno a questo mondo, l’unica persona che puoi salvare è te stessa. E dopo averlo fatto, allora puoi offrire quello che hai capito agli altri. Ma prima devi riempire quel vuoto che hai dentro e non puoi farlo senza capire perché lo senti. E così l’universo ti manda il maestro più saggio per impartirti questa lezione.

Il cancro.

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La felicità è un muscolo

La vittoria non è un punto fisso, una meta da raggiungere. È una serie infinita di punti, un percorso che non finisce mai. Non è  l’obiettivo che vuoi realizzare o la malattia che vuoi sconfiggere. Ci sono giorni in cui può sembrarti che lo sia ma è solo un’illusione. La vittoria è dinamica, mutevole, si adatta agli ostacoli e cambia come cambiano le stagioni. Non è il capolinea di una strada dritta, lineare, ma il centro di una spirale infinita.

Tu credi che l’obiettivo che stai perseguendo ti renderà felice e invece dopo averlo raggiunto, capisci che è stata proprio la lotta a colorare la tua vita e che gli ostacoli sono sono delle linee che separano chi eri prima da chi sei dopo averli superati. L’obiettivo in realtà sei e sei sempre stato tu: la vittoria con la V maiuscola, la felicità che non dipende da niente e da nessuno. Quella che viene da dentro, quella assoluta.

Una vittoria senza forma o sapore che quasi sempre arriva silenziosa, senza grandi cerimonie. E così come arriva se ne va. Si perché non è un punto fisso nel tempo e nello spazio, non è un traguardo da oltrepassare, ma piuttosto il carburante che ti permette di arrivarci.  È come una caccia al tesoro, nella quale ogni indizio trovato ti fa andare avanti, ti da la carica che serve per continuare ma non è mai sufficiente da solo per vincere il premio. La felicità assoluta è ciò che ti permette di percepire gli ostacoli come opportunità e la sofferenza importante tanto quanto la gioia.

Eppure anche se l’hai provata una o mille volte, la dimenticherai ogni volta che avrai di fronte una grande sfida. Già, perché in realtà  non è data una volta per tutte. È come vincere una corsa e se vuoi continuare a gareggiare e vincerne altre, dovrai continuare ad allenare le tue gambe. Ecco per la felicità assoluta vale lo stesso, è come un muscolo e va allenata e la vittoria non è il premio in sè ma il continuo allenamento che ti permette di vincerlo.

 

 

 

Mi fanno paura gli stranieri

Non mi fa paura Salvini. Né mi fanno paura i razzisti che lo seguono.

Temo i giusti che rimangono in silenzio. Quelli che non si espongono per non entrare in conflitto. Coloro che non si schierano per par condicio o per diplomazia. E mi fanno paura coloro che continuano le loro vite come se nulla fosse.

Mi fanno paura gli ipocriti che si nascondono dietro le varie “E la guerra in Siria?”, “E gli italiani?, “e allora il Pd?”.

Temo quelli che celebrano le giornate della memoria, che postano dappertutto link per ricordare i vari genocidi e poi si voltano dall’altra parte quando il loro stesso governo è complice di un olocausto.

Mi fanno paura quelli che credevo fossero miei amici, quelli che pensavo stessero dalla parte giusta della storia e invece no.

Mi fanno paura gli stranieri, coloro che non rispettano la Costituzione, quelli che non portano avanti gli ideali e i valori del mio Paese. E che nella maggior parte dei casi non sono immigrati, ma italiani.

 

 

 

 

 

 

 

Una lotta impari

La lotta fra chi dice la verità e chi diffonde – o si fida – delle bufale, sarà  sempre una lotta impari.

La verità costa fatica, le bufale no.

Per raccontare un fatto vero hai bisogno dei dati e delle loro fonti, dell’accuratezza dei dettagli.

Per raccontare bugie non ti serve nulla di tutto questo. Puoi e anzi devi essere approssimativo e superficiale. Basta una foto presa dal web e un titolo ad effetto.

Chi racconta la verità, poi, spesso deve scontrarsi con persone che non leggono molto e che di sicuro non leggeranno quell’articolo di 5000 caratteri che hai appena postato e che smonterebbe i loro discorsi in un minuto.

Quando scrivi o parli basandoti sui fatti devi fare uno sforzo continuo per ricordare, per essere chiara, per restare sul contenuto e non farti trascinare ai livelli di chi parla per frasi fatte, luoghi comuni e insulti.

Chi, al contrario, non è realmente informato ma si limita a ripetere quelle due o tre bufale costruite per essere facilmente ricordabili, non deve fare alcuno sforzo e può seminare la disinformazione molto più  velocemente rispetto a chi si impegna per la verità.

Per tutte queste ragioni si tratta di una lotta che non sarà mai alla pari. Se vuoi giustizia, dovrai presto accettare di essere etichettata come la polemica del gruppo, la scassacazzi, la ipersensibile. Dovrai sempre sentirti dire cose come “oh Mamma, e fattela na risata” o peggio ancora: “ma hai il ciclo?”. Sarai costretta a chiudere con certe persone che non riescono a centrare una conversazione sui contenuti, e che hanno l’insulto facile. Verrai spesso delusa, perché saranno sempre di più gli ignoranti “per scelta” rispetto a coloro che, pur non conoscendo la verità, hanno il vero desiderio di scoprirla. A fine giornata, capiterà molte volte di ritrovarti completamente prosciugata, senza energie per tutto il tempo che hai passato a parlare o scrivere e almeno una volta su due ti riprometterai di non farlo più, di smettere di parlare con “certa gente”.

Ma in fondo lo sai che non smetterai, perché per fortuna non hai smesso di credere nel potere della verità e nel potenziale delle persone.

 

Quel pezzo di Kosen Rufu che posso fare solo io

Ho il cancro. Beh tecnicamente non c’è più il nodulo nel mio corpo, anche se dovrò sottopormi ad una terapia per essere certa che non ne rimanga traccia. In ogni caso ho il cancro perché una volta che l’hai avuto, ce l’hai per sempre. Per sempre dovrò fare dei controlli, per sempre terrò la cicatrice sul mio collo, per sempre ricorderò la netta sensazione di non avere più il controllo sul mio corpo. Come se lo avessi mai avuto!

Avere il cancro mi ha buttato parecchio giù, anche se ho avuto la capacità di ironizzare e non farmi mai mancare un sorriso sulla faccia. Mi ha debilitato fisicamente e mi ha svuotato emotivamente. Mi ha anche fatto capire tante cose, e mi ha spronato a prendermi cura di me, del mio corpo e della mia mente. Il bilancio al momento è in pareggio. Confido che prima o poi sarà chiuso in attivo: finora almeno sono sempre riuscita a trasformare il veleno in medicina, per dirla alla buddese.

Ho la netta sensazione che c’è qualcosa di importante che devo cogliere da tutta questa situazione, anche se ancora mi sfugge cosa. Intanto però posso condividere con voi alcune piccole illuminazioni parziali. La prima illuminazione riguarda il cancro in sé. Esso è certamente il sintomo, non la causa. Ne sono profondamente convinta e a quanto pare, la metà dei medici che mi stanno curando nutre la stessa convinzione. Nel mio caso il cancro ha avuto diverse cause: la mancanza di amore per la mia vita, il non detto, l’ansia, lo stress e infine l’innesco, ovvero una relazione tossica. La seconda illuminazione riguarda aspetti relazionali. Le persone attorno a te si dividono automaticamente in FONDAMENTALI PER LA TUA VITA e INSIGNIFICANTI: in una frazione di secondo l’uomo per cui avevi perso la ragione per anni può diventare una persona qualsiasi ai tuoi occhi e una persona con cui avevi chiuso tutti i ponti, con serenità e anche con facilità, può tornare ad essere al centro del cuore. Membri della tua famiglia possono riunirsi o allontanarsi in modo drastico e nel giro di pochissimo tempo. Persone che non sentivi da anni e anni, all’improvviso ti cercheranno e acerrimi nemici di cui non ti importava più niente diventeranno importanti. La terza consapevolezza riguarda l’importanza delle parole e delle frasi. Non ti rendi conto di quanto siano dette con superficialità certe cose finché non hai il cancro (o la depressione, o qualsiasi altro problema molto grande). Anche tu le hai dette molte volte con indifferenza o con noncuranza. Ecco alcuni esempi: “Come stai?”. 90% delle volte è una domanda di circostanza, oppure un rompighiaccio. Quando hai un tumore diventa il tuo leitmotiv. Tutti ti chiedono come stai, almeno una volta al giorno e dopo il quarto giorno sei già arcistufa di dover rispondere con il cortese “bene”; al quinto giorno infatti cominci a usare espressioni tipo “in lotta” o “non mollo”, perché ti sei stufata di raccontare cazzate per far stare bene gli altri ma non vuoi neanche essere brutale. Dopo una decina di giorni un “DE MERDA” non te lo toglie nessuno. Altro esempio? Tutta la sviolinata su quanto sei forte, coraggiosa e ispiratrice. NO! non sono coraggiosa, non sono forte..  è solo che la vita non mi ha dato altre possibilità. Non sono un esempio per nessuno e mai ho chiesto di esserlo. Quando mi metti su un piedistallo mi privi della mia possibilità di mostrarmi fragile o spaventata o quella che sono: una malata. Questo ovviamente non vale per le amiche o per i compagni di fede, con cui puoi comunque essere te stessa perché ti amano, ti conoscono e soprattutto non ti hanno idealizzato, anzi sono spesso loro che ti ricordano che puoi piangere.

Infine, ho capito che avere una malattia ti rende vulnerabile in modi che nessuno che non ci sia passato può capire. Il tipo di fragilità a cui tutti pensano è certamente quella fisica, e poi anche quella emotiva. In realtà però, su questi due aspetti si parte abbastanza avvantaggiati grazie alle migliaia di progressi scientifici, alle medicine contro il dolore, all’allenamento culturale e sociale delle varie campagne di sensibilizzazione e di prevenzione. La fragilità a cui nessuno ti prepara è quella spirituale, cosmica per dirla in termini percepiti in modo meno “religioso”. Sono stata e per certi versi sono ancora sull’orlo di un precipizio: sotto i miei piedi c’è la sostanza, le cose che conosco da sempre, le certezze, i valori…; ad un passo da me c’è il vuoto, un vuoto così pieno di niente da essere ingombrante, pesante, presente. Il vuoto di senso, non solo della vita come la conosco da sempre ma anche della vita che ho sempre sognato. Non c’è stato mai il rischio di cadere in questo precipizio. Mai. Ma c’è stata sempre la tentazione. E c’è ancora. L’unica cosa che placa questa tentazione è il buddismo. Giuro che non so come facciano le persone malate non buddiste o in generale quelle senza una spiritualità forte, con un complesso dottrinale completo e coerente. Per ogni domanda, per ogni dubbio, per ogni sussurro demoniaco che questo cancro ha portato con sé, c’è solo un posto dove posso rifugiarmi: nelle parole del mio maestro e di conseguenza, per estensione, le parole di Nichiren e prima ancora di Shakyamuni. Né l’amore, né la mia passione per l’educazione,  e nemmeno la mia sete di giustizia, che per tanto tempo sono state il mio antidoto contro qualsiasi sofferenza, hanno potuto niente contro questa attrazione fortissima verso il nulla.

Il buddismo finora è stata l’unica religione che mi abbia mai convinto, che abbia mai davvero nutrito la mia spiritualità e che mi abbia spinto ad un miglioramento continuo. Il cancro gli ha dato un nuovo ruolo, quello di àncora. Il buddismo mi tiene ancorata alla vita ma non grazie ad un attaccamento o a una paura, come quella di morire, per esempio, o di non esistere (che è peggio). No, non nello stesso modo in cui ti tengono in vita i sentimenti, i desideri, i timori o i dubbi su ciò che viene dopo. Il buddismo mi tiene ancorata alla vita perché me ne restituisce il senso, il nesso con il tutto e rende la mia esistenza indispensabile all’interno di un quadro più ampio, nel quale Elisabeth ha una missione che solo lei può compiere. Quando arriva la tentazione di cadere, il pensiero non corre ai sogni non realizzati o alla sofferenza che provocherei, perché quel nulla li assorbe perfettamente. Quando la tentazione striscia dentro di me, il mio maestro mi esorta a restare per compiere quel pezzo di Kosen Rufu che posso fare solo io.

 

Quel cammino tra l’inizio e la fine.

Non mi piacciono gli addii, i finali e i “vissero felici e contenti”. Non amo neanche i nuovi inizi, i cambiamenti o le grandi rivoluzioni.

Mi piace cosa sta in mezzo. Il cammino tra l’inizio e la fine. Adoro la quotidianità, la routine. Il sentirmi a casa. Mi interessa più il processo che il risultato.

Ho sempre fatto il salto quando era necessario buttarsi. Spicco il volo ogni volta che serve ma non vedo l’ora di atterrare e tenere di nuovo i piedi ben piantati per terra. Le trasformazioni mi spaventano. Mi terrorizza quello che non conosco. Eppure non mi sono mai tirata indietro.

In trentun anni ho vissuto in otto città, in quattro nazioni di tre continenti diversi. Ho fatto dieci traslochi. Ho cambiato facoltà due volte. Lavoro otto. Ho avuto diversi fidanzati e fidanzate. Ho convissuto per sei anni e ho scampato il matrimonio per un pelo. Mi sono buttata con il paracadute da quindici mila piedi e sono rotolata da una collina, dentro una palla di gomma. Ho visitato quasi venti paesi e ho assaggiato ventitré tipi di cucina diversi. Sono stata cristiana per quattordici anni, agnostica per dieci e sono buddista da sette. Ho imparato tre lingue diverse dalla mia e ho iniziato a studiare canto e chitarra a trentun anni.

Ho fatto e cambiato così tante cose che mi sembra di aver vissuto mille vite. Chi mi conosce non può credere che io abbia paura dell’ignoto; che anche io abbia difficoltà a lasciare la mia zona di comfort. Eppure è proprio così. Ma allora perché sono riuscita a fare tutto quello che ho fatto? Perché ho abbandonato le mie certezze e sono riuscita a vincere la paura di perdere tutto? La paura di sbagliare, di cambiare, di stare da sola?

La verità è che ho avuto un unico vantaggio nella mia vita. Un unico espediente che mi ha portato ad uscire dal guscio protettivo dell’abitudine e della familiarità: la sofferenza.

Si, è stata la grande sofferenza che ho provato fin da piccola a spingermi alla ricerca continua di me stessa. Il vuoto che ho nel petto da quando ho memoria di me è stato il motore più potente della mia rivoluzione umana e lo è tutt’ora.

La depressione di cui ho sofferto in adolescenza è stata la mia via d’uscita da un percorso già scritto per me, dalla società in cui ero cresciuta: un diploma, forse una laurea – giusto per poterla sfoggiare con i compaesani – e certamente un lavoro vicino casa fino al matrimonio con il primo amore, coronato da una o più gravidanze. Questo era il futuro che mi aspettavo. Che tutti si aspettavano da me. Il futuro che credevo di volere. Ma la vita aveva altro in serbo per me.

Solo che è difficile abbandonare le aspettative, i sogni da bambina e tutto ciò che ci è familiare. E’ dura percorrere strade non asfaltate, spesso piene di dossi e pericoli. Scegliere il cammino più difficile non è semplice. Allora, proprio come una madre compassionevole sgrida il figlio quando sbaglia, la vita mi ha dato una bella spinta. Una nuova partenza, azzerando tutto. Si perché come dice una mia cara amica, la depressione è uno zero dell’anima. O di sicuro lo è stato per me.

Da quello zero ho ricostruito tutto. Ho ricostruito me stessa, i miei sogni e il mio cammino. E per farlo ho dovuto fare il mio primo salto nel vuoto, nel mio personale buco nero. Il primo viaggio è stato il più importante: quello alla ricerca di me stessa, per guardarmi dentro e guardare in faccia il mio dolore.

Vorrei poter dire che da allora il cammino è stato in discesa, ma non è così. Ad ogni nuova partenza o sfida che mi si presenti, la paura torna sempre. Il disagio, la mancanza di equilibrio sono i miei primi compagni di viaggio. E quando la resistenza al cambiamento è troppo forte, la vita torna con i suoi scossoni compassionevoli.

E’ una lotta. Eterna. E decisamente impegnativa. Ma realizzabile. E con tempi di ripresa sempre più rapidi, con soddisfazioni sempre più grandi e passi sempre più lunghi. Adesso, ogni volta che si presenta una novità o un ostacolo che mi costringe ad uscire dal mio guscio sicuro, l’accolgo come l’ennesima opportunità che la vita mi sta dando per aprirmi al mondo, per migliorarmi e superare i miei limiti.

E infatti miglioro, supero i limiti e allargo la zona di comfort. Affronto tutto con coraggio e poi torno a casa, a godermi ciò che sta tra la fine di un’avventura e l’inizio della successiva: un buon libro sul divano e una tazza di cioccolata!

 

CV che sta per curriculum vero (work in progress)

Ho finito di studiare. Devo scrivere il curriculum vitae e cercare il Lavoro. Non che non abbia mai scritto un cv o non abbia mai cercato lavoro ma adesso devo farlo seriamente. Ok! Iniziamo da una semplice domanda: cos’è un curriculum vitae?

E’ la storia formativa e lavorativa della mia vita.. vita che ho vissuto io.. ergo niente di più facile da scrivere per me,  giusto?

No. Niente di più così lontano dalla realtà.

Innanzitutto c’è differenza  – una difficile da intuire – tra curriculum vitae e resume. Inoltre, ci sono un centinaio di tipi di curriculum: funzionale, anticronologico, creativo, americano, europeo..ecc. ecc. Infine, devi riuscire nell’arduo compito di essere sintetico (non più di due pagine) senza sembrare uno sfaticato che non ha fatto molto nella vita e senza saltare tutte le altre esperienze, come il volontariato (“molto apprezzato soprattutto nei paesi anglosassoni”), cercando contemporaneamente di riassumere le cose che hai appreso e gli obiettivi che hai raggiunto in ognuna delle esperienze che citi.

Sembra difficile?

Prova ad aggiungere il desiderio di far arrivare attraverso una semplice lettera di presentazione tutto quello che sei e che sei certa di riuscire a fare e ora dimmi se non ti sembra che fare un curriculum sia di per sé un lavoro.

E in effetti, proprio come un lavoro, richiede tempo, sforzo e volontà.. tutte cose che ho impiegato negli ultimi giorni al fine di preparare un ottimo cv da mandare a New York.

Il risultato non si avvicina nemmeno lontanamente a quello che i migliori siti internet in materia ritengono che sia un ottimo curriculum. Non è sintetico ( cinque pagine è il massimo della sintesi che sono riuscita a fare), non è creativo (non c’è nemmeno una parola colorata), non è accattivante (mi sono annoiata io stessa a leggerlo), non è funzionale (non sono riuscita a capire come caxxo si fa un curriculum funzionale!). Non è un sacco di cose insomma. Non è neanche un curriculum a parer mio.. ma piuttosto un elenco di cose che ho fatto, intervallate da parole che cercano di inserirle nella scatolina giusta (educazione, lavoro, hobbies, ecc.).

E soprattutto non è il curriculum che io vorrei scrivere o vorrei leggere se dovessi scegliere delle persone a cui affidare un lavoro.

Il mio curriculum ideale è molto diverso. Sarebbe più o meno così:

Elisabeth Di Luca

Elisabeth è il nome scelto da mia sorella. Mia sorella si chiama Palma. Già questo dimostra l’amore che provava per me, scegliendo un nome tanto diverso dal suo e da tutti i nomi scelti fino a quel momento nella mia famiglia: nomi di gente morta o in procinto di morire, nomi vecchi o da vecchi, strani e tipicamente oggetto di burle da parte dei compagni di scuola (come Palma, appunto! “E cosa sei un albero?”, “Palma de Majorca??” e così via). Nei miei studi sull’educazione, ho avuto modo di approfondire l’importanza del nome nella programmazione educativa del bambino, che tende a rimanere schiacciato o a rispettare l’aspettativa creata da quella particolare scelta. Io ho rispettato l’aspettativa. Un nome diverso da tutti quelli dati nella mia famiglia mi ha assegnato inconsciamente il compito di essere diversa dalle persone che li portavano. Compito che ho rispettato, nel bene e nel male. Pecora nera della famiglia, piena di tatuaggi e piercing, che ha fatto sesso per la prima volta a 14 anni (ovvero 10 anni prima dell’età media in cui le donne della famiglia Di Luca avevano fatto sesso fino a quel momento), che ha deciso di fare il Liceo Classico interrompendo la tradizione di iscriversi alla Ragioneria (“perché almeno hai un pezzo di carta che ti fa lavorare”) e così via..

Sempre diversa e sempre criticata. E perché ho scelto di iscrivermi all’università – “togliendo braccia per il lavoro” – e poi perché l’ho lasciata per andare a lavorare e nuovamente  quando ho lasciato il lavoro per re-iscrivermi all’università. Oggi sono felice di aver aperto la strada a tutte le altre donne della mia famiglia, che dopo di me hanno avuto nomi moderni  e non collegati a particolari tragedie familiari, che finalmente si masturbano e che quindi hanno una sessualità più sana e soprattutto un po’ più precoce, donne che si iscrivono liberamente alle scuole che più preferiscono e che sono libere di fare scelte sbagliate e cambiare idea più volte.

Di Luca è il mio cognome, quello che mi ha dato mio padre. Quando sono nata non c’era ancora la possibilità di dare anche il cognome della madre, in Italia.. figuriamoci in Sicilia. Non ho preso molto dai Di Luca ma sicuramente  ho preso il meglio. Da mio padre la voglia di lavorare. Mio padre è uno di quegli italiani che è andato a vivere 25 anni all’estero, a fare tre lavori diversi per mettere da parte i soldi necessari ad aprire un’attività in Sicilia. Dal niente ha creato un’azienda che prima della crisi andava molto più che bene. Mio nonno, invece, mi ha lasciato la nonviolenza. Nella Sicilia degli anni 40, veniva preso in giro da tutti i compaesani perché non picchiava i figli. E lui non se ne curava minimamente. Neanche con un dito, li toccava.

Via X, n. 0 Pisa

A Pisa ci sono arrivata per amore. Amore per il mio ex fidanzato che voleva tornare in Italia (vivevamo a Brisbane, in Australia) e amore per lo studio. Avevo deciso di iscrivermi all’Università e un’amica del mio ex mi parlò di Scienze per la Pace: fu amore non appena vidi il piano di studi. A Pisa mi sono sentita a casa per molti anni. Adesso però sento che è arrivato il momento di andare via, spiccare il volo.

elisabeth_diluca@hotmail.it

Questa è la mia mail “professionale” ma la mia vera mail è “elisabeth_peace@hotmail.com”. Lo è stata da sempre, sin da quando ancora si chattava su Messenger di MSN e ci volevano quattro minuti per connettersi ad internet.

380/xxxx060

Il mio numero storico, avuto con il primo cellulare passatomi da mio padre: un Motorola durato ben dieci anni.  Un cellulare che ho rimpianto, una volta rottosi, e che continuo a rimpiangere. Dopo quello, infatti, ne ho avuti altri tre in due anni, tutti di mio padre e tutti “usa e getta”. Finalmente l’anno scorso ho comprato un cellulare nuovo, touch, che ha whatsapp.. e che  va molto peggio di tutti gli altri!

…cos’altro? Mmm.. ci penso e vi faccio sapere!