Tirando le fila del blog (lavori in corso)

Stava male. Non riusciva a pensare a nient’altro che a questo. Beh, a questo e anche al suo libro. Sin da quando aveva memoria di sé, aveva sempre saputo che c’era un libro dentro di lei. Non che si credesse una scrittrice o qualcosa di simile, come una blogger o una giornalista. No, no, niente di tutto ciò. Solo che custodiva dentro di sé una storia che andava raccontata, e quale miglior modo di raccontarla se non con un libro?

Che storia? Non lo sapeva e stava male anche per questo. Oltre che per mille altre buonissime ragioni. Si, perché lei non era una di quelle che soffrono per un esame andato male o per un’ammaccatura sulla macchina.  E’ vero che la sofferenza è sofferenza sempre, ma diciamocelo, alcune volte si soffre proprio per delle cazzate! Che so, per una persona che ti insulta sull’autobus o per una donna che ti provoca invidia per quanto è bella, mentre tu sei alta un metro e 62 (sulla carta di identità, se ti va bene!), hai i capelli che sembrano quelli delle barbie a cui hai fatto e rifatto lo shampoo da bambina e le uniche forme che ti ritrovi sono quelle di formaggio con cui ti sfondi a pranzo e a cena (e durante lo spuntino di mezzanotte).

Ma lei no, non si accontentava di soffrire superficialmente. Come per ogni cosa che faceva, andava fino in fondo. E infatti lei soffriva perché sentiva il mondo. O meglio sentiva il mondo quando soffre. Poi aveva anche il cancro e una famiglia che al confronto quella degli Adams sembra il mulino bianco, ma queste erano bazzecole se paragonate al buco che le squarciava il petto e che lei chiamava il vuoto.

Per un periodo della sua vita, durante l’adolescenza, non era riuscita a gestire il suo “sentire” e così aveva iniziato a bere e a fumare erba. Ma era troppo intelligente per non capire che quei sotterfugi non duravano abbastanza e che poi le presentavano un conto molto amaro, fatto di mal di testa, vomito e vuoti ancora più profondi. Così smise, con la stessa lucidità con cui aveva iniziato, e cominciò la sua ricerca di una luce in fondo a quel tunnel, una luce che non fosse solo un miraggio provocato da alcool e stupefacenti.

Il primo esperimento fu, ovviamente, l’amore. Penserete “che banalità!”, e lo pensava anche lei in realtà. Qualcosa nelle favole e nei romanzi d’amore non l’aveva mai convinta del tutto, e non sto parlando solo della storiella del ranocchio (palese tentativo di convincere le belle donne che anche i cessi possono renderle felici) ma dell’attesa. Proprio così, l’attesa. Fateci caso: che si tratti di favole o di film, c’è sempre una donna (raramente un uomo) che aspetta o di essere salvata dalle grinfie di qualche regina cattiva (anche qui raramente uomini cattivi… seriamente????) o di ricevere una qualche prova che le restituisca la fiducia nell’amore (solo dopo che il principe di turno ha involontariamente fatto cadere il suo cuore nel tritarifiuti). Ben presto, infatti, si era resa conto che questa storia dell’attesa era una grande fregatura per le donne, perché mentre loro si fermavano ad attendere la trasformazione (ahimè, spesso solo interiore) del ranocchio, gli uomini andavano avanti e le superavano sul lavoro, e non solo: mostravano la loro spada lucente a molte più principesse di quelle che effettivamente salvavano!  E le donne? Addormentate! in tutti i sensi.

Ad ogni modo l’esperimento fu un fallimento totale, che provò a ripetere più volte nel corso degli anni ma con risultati sempre più deludenti, seguendo lo schema di una relazione inversamente proporzionale: più lei si impegnava (e si impegnava tanto, per dio! Fino alla fine, come in ogni cosa che faceva) più l’altro se ne fregava. Anziché un antidoto contro il vuoto cosmico che le procurava la sofferenza degli altri, otteneva un veleno ancora più potente. Così, un giorno decise che se non poteva smettere di sentire il dolore del mondo allora lo avrebbe salvato. E come sempre giù per una strada fino in fondo: volontariato, lauree, lavoro, master, tirocini, missioni in luoghi sperduti e pericolosi, dottorato: tutto secondo un progetto logico e ben pianificato, con il fine ultimo di fare la differenza.

Povera illusa.  Come poteva credere davvero che l’universo le avrebbe permesso di dedicare tutte le sue energie in una missione suicida? Non è possibile salvare nessuno a questo mondo, l’unica persona che puoi salvare è te stessa. E dopo averlo fatto, allora puoi offrire quello che hai capito agli altri. Ma prima devi riempire quel vuoto che hai dentro e non puoi farlo senza capire perché lo senti. E così l’universo ti manda il maestro più saggio per impartirti questa lezione.

Il cancro.

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Italia mia

Il mio Paese è  in guerra. Solo che ad essere bombardati non sono le città ma i cuori, e il campo di battaglia è dentro le persone, non fuori.

Il mio Paese sta sanguinando. I suoi figli Rom, gay e di colore vengono picchiati, feriti con pistole, minacciati di morte.

Il mio Paese ha un cimitero grande quanto il mare e un Ministro dell’odio che lavora, instancabile, per riempirlo di cadaveri.

Il mio Paese è  spaccato a metà: da una parte il disprezzo, dall’altra la compassione. Da una parte l’ omissione di soccorso, il razzismo, l’omofobia e dall’altra l’accoglienza, la lotta contro le ingiustizie, il desiderio di libertà e uguaglianza.

Il mio Paese è  in guerra. Ma ancora non lo sa.

Le urla senza voce

Arrivano nei momenti di solitudine, quando c’è silenzio nella stanza e nella mia testa. Quando non ho qualcosa da fare o da sistemare, quando non ho qualcuno di cui prendermi cura e posso ascoltarle, arrivano.

Da lontano o da vicino, arrivano, senza nessun filtro. Cariche di disperazione e di rabbia.

E allora mi fermo. Mi lascio sommergere. Attraversare. Riempire. Fino a non sentire più  di essere una sola, fino a sentire quel filo che mi lega a tutti gli altri, quel richiamo atavico dentro di me che mi fa sentire parte di un tutto.

Ed è in quel momento che sento quel dolore straziante alla bocca dello stomaco, che non mi uccide ma mi diminuisce, che non mi lascia cicatrici addosso ma mi rende partecipe fino a lasciarmi sfinita, senza respiro.

Lo sento e lo sento fin dentro le ossa. Lascio che mi scavi dentro, senza fretta. Senza paura. Non come una volta, quando non sapevo che farne.

Oggi più che mai non vorrei mai smettere di sentirlo. Oggi più  che mai non vorrei perdere la mia umanità.

Così  quando arrivano io le ascolto. Le urla mute di chi non ha voce in questo mondo. Oggi più che mai. Perché oggi sono io la loro voce.