Diario aperto

A te che sei arrivata qui digitando queste sei parole: “maledetta sensibilità vorrei essere più stronza”. A te che cerchi su internet qualcosa che ti curi l’anima. A te racconterò cose che non ho mai raccontato a nessuno, se non al mio diario in quei pochi momenti di sfogo che mi sono concessa negli anni. E lo farò senza fretta, raccogliendo i pezzi della mia vita,  con la speranza che ritornando troverai qualche risposta ma soprattutto una certezza: non sei sola.

08 aprile 2010

Sono davanti a questa pagina bianca ormai da tempo, forse una o due ore, forse qualche giorno, forse da quando ho imparato a scrivere. Questa pagina bianca è il buco che c’è dentro di me. E’ profondo, doloroso, alle volte è un grido, altre ancora solo un bisbiglio. Ma è sempre lì. Anche quando ci sono altre cose, persone, parole.

E’ un vuoto che si riempie ogni tanto. In questo momento è pieno delle urla di mia sorella. “Cristina!! fai i compiti e poi apparecchia la tavola”.

Cristina è mia nipote. Ha 10 anni. E’ una bambina bellissima, intelligente, creativa. E sensibile.. tanto. Mi ricorda me stessa da piccola. Mi ricorda mia sorella.

In realtà non ho conosciuto mia sorella quando era piccola.  Sono nata quando lei aveva 14 anni. Ma l’ho sempre vista bambina nei suoi occhi tristi, nella sua voce spezzata, nella sua corazza. Una bambina sola. Quella solitudine che solo chi non si sente amato può vivere.  Chi non si sente degno di esserlo.

Eccolo di nuovo, il vuoto. La pagina torna bianca. Le parole scappano via, si nascondono.  I pensieri perdono consistenza. Lotto per cercarli, per farli uscire, per tradurli in lettere, parole, frasi. Un diario.

Un diario è un buon amico. Questo è quello che ho sempre sentito dire. Per me, invece,  il diario è un mezzo per trovarmi, per parlarmi, per dirmi quelle cose che non voglio sentire, che la bimba ferita che c’è in me non vuole sentire. Per abbracciarla e dirle che le voglio bene. Che se lo merita.

E’ difficile. Silenzio. La mia mente si rifiuta ancora una volta, il mio cuore invece no. Ne ha bisogno.

Mentre le parole prendono corpo, qualcosa dentro di me cambia. Il vuoto si colora.  E’ una bella sensazione, mi ricorda un po’ quello che provo quando dopo giorni di pioggia mi sorprende una giornata di sole.

Il sole.. quante cose potrei dire sul sole. La cosa più importante è che quando c’è, il mio vuoto è meno vuoto. Mi dicono che sono meteoropatica – io lo dico – ma la realtà è un’altra: il sole mi ricorda momenti spensierati, il mare,  risate, profumi, canzoni. Il sole  mi ama e io amo lui. Mi sorride  e io gli rispondo.. questo mi rende felice, meno grigia.

Ci sono tante cose che mi rendono felice. Essere un po’ rotta dentro non ti lascia indifferente alle cose belle, anzi. La mia vita è bellissima. Cose per altri banali o addirittura noiose per me hanno un contenuto diverso.  Primo fra tutti lo studio. Studiare è senza alcun’ombra di dubbio il mio verbo preferito! Studiare  significa conoscere e conoscere è tutto ciò che voglio.  Viaggiare è il mio secondo verbo preferito. Anche viaggiare significa conoscere. In modi diversi ovviamente, ma complementari.

Ho viaggiato tanto e ho imparato tanto dai miei viaggi. Primo fra tutti che la diversità è qualcosa che dobbiamo preservare, curare, coltivare. E’ il sale della vita, e anche il pepe. Il carburante dell’umanità, ciò che ci stimola e ci arricchisce.

La mia diversità, invece, è stata sempre un problema nella mia famiglia. Essere diversa equivaleva a non essere adatta e quindi indegna di amore.

Non è stato sempre un passaggio così diretto nella mia testa. Ho dovuto lavorarci molto prima di maturarne consapevolezza. Prima di arrivarci la mia diversità non era originalità, un fiore raro da proteggere. Era solo mancanza di adeguatezza. Non essere normale. Oggi so che la normalità è un concetto sopravvalutato, oltre che relativo. La normalità è essere conforme a quanto è stato deciso che sia il modo migliore di pensare, sentire, essere. E non importa se ci sono persone che credono che non sia quello più giusto.. la maggioranza vince perché la maggioranza è democratica.

09 aprile 2010

Ed eccomi qua, a guardare di nuovo dentro il mio personale buco nero.

La metafora dell’universo si adatta perfettamente. Infinito, oscuro, puntellato di luci, in espansione. E’ cosi che mi sento. Quello che c’è dentro di me è una scoperta continua. Persino adesso, mentre scrivo e i pensieri prendono forma, acquistano una sostanza che non pensavo di dargli. Mi sorprendo di me stessa, di quante cose non dette ci sono nel mio cuore e nella mia testa. Forse sono sempre state lì, confuse, ammassate tanto da non riuscire a distinguerle.

Mi sento sempre così.. con tanto da dire, da raccontare, da spiegare. Ogni volta sul punto di farlo. Mai con la necessaria forza d’animo. E’ uno sforzo continuo. Anche ora, in questo istante c’è qualcosa che mi trattiene dallo scrivere quello che provo. Paura. Ma di cosa? Di sbagliare? Di scoprire? Di ricordare?

Ricordare..

..i ricordi sono strane creature che popolano la mente. Vivono, si nascondono, ti fanno ridere o piangere, alle volte ti colgono alla sprovvista. Possono essere pesanti da sopportare o leggeri come piume, possono anche profumare.. Possono dormire per anni e risvegliarsi in un batter d’occhio. Alle volte possono non svegliarsi mai.

Ce ne sono alcuni che fanno paura. Terribili.

12 aprile 2010

Sono passati quasi tre giorni. Non sono riuscita ad andare oltre la mia ultima frase.

Ci sono ricordi che finiscono nell’oblio per una ragione: non siamo così forti da sopportarne il peso. Ma adesso è il momento farli tornare a galla per affrontarli, decisa e sicura nella mia nuova me.

Da dove inizio?

Da oggi. É quasi il tredici di aprile del 2010. Sono una ragazza di 25 anni. Mi chiamo Elisabeth Di Luca e sono una sopravvissuta. Cosi mi sento. Da sempre, sin da quando riesco a ricordare ho dovuto lottare per restare in vita. Non fisicamente.

La mia era una battaglia contro la più subdola e indefinita delle morti: quella dell’anima.

17 aprile 2010

Non so bene quando tutto ha avuto inizio. Un giorno ho realizzato che mi stavo spegnendo.

“Prigioniera” è la parola che userei, se dovessi sceglierne una, per descrivere come mi sentivo. Prigioniera di una vita che non era la mia. Sapevo di non essere io la ragazza che stava immobile sul letto, in silenzio, per giorni interi. Io ero dentro di lei, urlante, ma nessuno mi sentiva. Lottavo per trovare il modo di venir fuori e alla fine ce l’ho fatta. E sono qui a raccontare quello che nessuno ha mai saputo ascoltare.

Ero infelice. Preda di quella tristezza che non si può descrivere, perché le parole si rifiutano di conoscerla.

Ero uno stagno. Immobile e torbido. C’era vita dentro di me, ma silenziosa.

I giorni passavano, li vedevo scorrere davanti a me, uno dopo l’altro e poi i mesi e gli anni. Vedevo gli altri. Questi altri che erano tutto ciò che io non riuscivo ad essere. Allegri, sognanti, spensierati, felici, innamorati. Io non ero niente di tutto ciò. Io non ero e basta.

Eppure volevo essere. Lo desideravo intensamente. Ma non mi sentivo all’altezza. Non ero abbastanza. Abbastanza buona, abbastanza intelligente, abbastanza bella, abbastanza magra.

Forse se fossi riuscita a dimagrire. Se fossi riuscita a controllare il mio peso, il mio corpo, sarei riuscita a controllare la mia vita!

“Mangia tutto se vuoi la tua sorpresa, altrimenti avrai una punizione!” questo mi diceva mia madre quando ero piccola. Certo adesso funzionava al contrario, ma avrei ottenuto lo stesso risultato: la mia sorpresa.. le attenzioni di mia madre.


La sera sta scendendo e con lei la malinconia. Ho voglia di piangere. Senza motivo.

In una società come la nostra – funzionalista, razionale, obiettiva – ci deve essere sempre un motivo per qualsiasi cosa. Devi stare attento a cosa fai, a cosa pensi, a cosa vuoi. Tutto procede in una sola direzione.Se la cambi, diventi un deviato, un emarginato.

L’emarginazione la subisci, a volte però la cerchi.

Quando ero una ragazzina preferivo stare sola. Anche  quando ero con i miei amici mi isolavo. Tante volte  mi allontanavo per leggere, per sognare ad occhi aperti. Non mi sentivo al posto giusto. Non mi sentivo come loro, come gli altri. Ero diversa. Una diversità difficile. Non ci capivamo. Parlavamo ma non ci ascoltavamo. Due mondi. Separati.

Ero lontana anni luce da loro. Loro da me. Non hanno mai capito cosa mi succedeva. Un giorno ho smesso di frequentarli.

Ancora oggi non so se abbiano mai realizzato che non li avevo esclusi dalla mia vita, erano stati loro a non voler vedere che stavo male. Non gliene faccio una colpa. Certe cose sono difficili, non solo da capire, ma soprattutto da accettare. Ed eravamo così  giovani, senza esperienza.

Anche se io mi sentivo già grande. Troppo. Una vecchia.

Anche fisicamente. Ero sempre debole e piena di malesseri. Non riuscivo ad andare su per le scale senza avere il fiatone. Mi stancava tutto, anche fare una passeggiata o semplicemente alzarmi dal letto. E avevo sempre sonno. Voglia di dormire. Solo dormire. Non esserci, non esistere. Scomparire sotto le lenzuola. Sprofondare. Magari non svegliarmi più.

Tapparelle abbassate. Porta chiusa. Coperta sul viso.

Buio.

Assoluto.

Non c’era luce dentro di me. Non ce ne doveva essere nemmeno fuori.

Il tempo non passa mai quando non hai uno scopo. Quando respiri solo perché sei abituata a farlo. E infatti non passava, e le miei giornate diventavano sempre più lunghe. Si confondevano con le notti. La notte si sta ancora peggio. Il buio è ancora più buio quando c’è silenzio e la quiete può essere un inferno se non vuoi sentire cosa c’è dentro la tua testa.

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