Cosa scelgo oggi

Non so cosa avrei scelto se avessi saputo che sarebbe stato come avere una finestra sul petto, con il cuore in bella vista sul davanzale; o se qualcuno mi avesse detto che sarebbe stato come stare a penzoloni sul bordo di un burrone. Nessuno ti prepara. Nessuno ti spiega che cosa significa aprirsi veramente con un altro essere umano. Nessuno ti dice che inizierai a sentirti nuda, esposta, indifesa. Non so se, tornando indietro con questa consapevolezza, sceglierei di nuovo la stessa strada invece che restare nel mio guscio.

Tutti quegli tsunami nel cuore, tutte quelle capriole nello stomaco erano solletico in confronto alla sensazione di essere completamente senza maschere, senza filtri. Essere te senza scudi, essere te senza l’armatura che ti ha protetta. Quella stessa armatura che però ti ha schermata anche dalla bellezza di un sentimento vero, dalla poesia di due corpi che si toccano il cuore a vicenda.

Nessuno ti dice che sarà tanto bello quanto terrificante, che ti attrarrà come acqua nel deserto e allo stesso tempo ti farà  venire il desiderio di scappare su un altro pianeta. E soprattutto nessuno ti dice che ci saranno momenti in cui perderai completamente l’equilibrio e sarà davvero dura ritrovare il tuo centro in mezzo alla bufera che avrai dentro.

Non so cosa avrei scelto se avessi saputo tutto questo. Ma so cosa scelgo oggi. Cosa ho scelto ieri. Scelgo di non fuggire, di provare, di inciampare e rialzarmi, perché ciò che mi aveva ingabbiato il cuore mi ha anche allenato alla resilienza e alla lotta. Perché, proprio come i duri colpi di uno scalpello sul marmo sono ciò che lo trasformano in un’ opera d’arte, la sofferenza mi ha plasmato in una combattente.

Con l’infinito dentro

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La enfermedad me quitó la fuerza física, me privó de mi tiempo y de mi ritmo frenético. Se impuso sobre mi alma y mi cuerpo, obligándome a ser tocada, cortada, abierta y cosida por manos desconocidas. Me erosionó lentamente, borrando lo que era. Y ahora estoy aquí, obligada a reconstruirme, a reinventarme, a darme nuevos ritmos. Ahora tengo que dedicarme tiempo y darme espacio aunque todavía no sepa cómo hacerlo. Poco a poco empiezo a reevaluar mis elecciones, a reconsiderar lo que creía importante. La enfermedad te quita tanto que te obliga a apreciar lo que queda: deseos, pasiones, sentimientos, amistades. Y luego, cava un vacío en tus días para que tú veas los demonios de los cuales escapaste toda tu vida, primero entre todos el miedo a vivir.

Frente a monstruos tan grandes, lo único que puedes hacer es luchar o dejarte llevar, pero no puedes decidir qué hacer una vez por todas. No, no es una elección de un instante, sino una elección de cada momento, de cada día. Ese es el verdadero desafío: relanzar continuamente contra cada duda, cada miedo, cada sombra que serpentea en tu mente. Contra esa vocecita que te dice como nunca serás de nuevo sana, más fuerte, más enérgica, y que te hace temblar con cada punzada de dolor, gritando esas malditas cuatro palabras: “será así para siempre”.

Luchas o mueres, pero no de cáncer… de miedo.

Lo único que puedes hacer contra el miedo es soñar. Y así sueño. Sueño con todo mi corazón y todo mi cuerpo. Sueño con una Elisabeth fuerte y libre, que corre de nuevo, que viaja por todas partes, que se sienta en el suelo con sus niños en un campamento de refugiados o en una aldea perdida en una selva, tal como era antes.

Sueño con una Elisabeth que se ama y ama el mundo. Una Elisabeth con el infinito dentro de sí. La sueño y la pinto.

Volver a soñar es mi primera ACCIÓN…


La malattia mi ha tolto le forze fisiche, mi ha privato del mio tempo e dei miei ritmi frenetici. Si è imposta sulla mia anima e sul mio corpo, costringendomi a essere toccata, tagliata, aperta e ricucita da mani sconosciute. Mi ha erosa piano piano, cancellando quella che ero.

E ora sono qui, costretta a ricostruirmi, a reinventarmi, a concedermi ritmi nuovi. Adesso devo dedicarmi tempo e darmi spazio anche se non so ancora come si fa. Inizio piano piano a rivalutare le mie scelte, a riconsiderare ciò che credevo importante. La malattia ti toglie così tanto che ti costringe ad apprezzare quello che resta: i desideri, le passioni, i sentimenti, le amiche vere, la pratica. E poi scava il vuoto nelle tue giornate per farti vedere i demoni da cui sei scappata tutta la vita, prima fra tutte la paura di vivere.

Davanti a mostri così grandi l’unica cosa che puoi fare è lottare o lasciarti andare, ma  non puoi decidere cosa fare una volta per tutte. No, non è una scelta di un istante, ma una scelta di ogni istante, di ogni giorno. E’ quella la vera sfida: rilanciare in continuazione contro ogni dubbio, ogni timore, ogni ombra che serpeggia nella tua mente. Contro quella vocina che ti racconta come non sarai mai più sana, forte, veloce, energica, e che ti fa tremare ad ogni fitta di dolore, sibilandoti quelle maledette quattro parole: “sarà così per sempre”.

Lottare o morire, ma non di cancro. Di paura.

Contro la paura l’unica cosa che puoi fare è sognare. E così sogno. Sogno con tutto il cuore e con tutto il corpo. Sogno una Elisabeth forte e libera, che corre di nuovo, che viaggia in lungo e in largo, che si siede a terra con i suoi bambini in un campo profughi o in un villaggio sperduto nella foresta, proprio come una volta. Sogno una Elisabeth che si ama e che ama il mondo. Una Elisabeth con l’infinito dentro.

La sogno e la dipingo.

Tornare a sognare è la mia prima azione…

 

 

 

Tirando le fila del blog (lavori in corso)

Stava male. Non riusciva a pensare a nient’altro che a questo. Beh, a questo e anche al suo libro. Sin da quando aveva memoria di sé, aveva sempre saputo che c’era un libro dentro di lei. Non che si credesse una scrittrice o qualcosa di simile, come una blogger o una giornalista. No, no, niente di tutto ciò. Solo che custodiva dentro di sé una storia che andava raccontata, e quale miglior modo di raccontarla se non con un libro?

Che storia? Non lo sapeva e stava male anche per questo. Oltre che per mille altre buonissime ragioni. Si, perché lei non era una di quelle che soffrono per un esame andato male o per un’ammaccatura sulla macchina.  E’ vero che la sofferenza è sofferenza sempre, ma diciamocelo, alcune volte si soffre proprio per delle cazzate! Che so, per una persona che ti insulta sull’autobus o per una donna che ti provoca invidia per quanto è bella, mentre tu sei alta un metro e 62 (sulla carta di identità, se ti va bene!), hai i capelli che sembrano quelli delle barbie a cui hai fatto e rifatto lo shampoo da bambina e le uniche forme che ti ritrovi sono quelle di formaggio con cui ti sfondi a pranzo e a cena (e durante lo spuntino di mezzanotte).

Ma lei no, non si accontentava di soffrire superficialmente. Come per ogni cosa che faceva, andava fino in fondo. E infatti lei soffriva perché sentiva il mondo. O meglio sentiva il mondo quando soffre. Poi aveva anche il cancro e una famiglia che al confronto quella degli Adams sembra il mulino bianco, ma queste erano bazzecole se paragonate al buco che le squarciava il petto e che lei chiamava il vuoto.

Per un periodo della sua vita, durante l’adolescenza, non era riuscita a gestire il suo “sentire” e così aveva iniziato a bere e a fumare erba. Ma era troppo intelligente per non capire che quei sotterfugi non duravano abbastanza e che poi le presentavano un conto molto amaro, fatto di mal di testa, vomito e vuoti ancora più profondi. Così smise, con la stessa lucidità con cui aveva iniziato, e cominciò la sua ricerca di una luce in fondo a quel tunnel, una luce che non fosse solo un miraggio provocato da alcool e stupefacenti.

Il primo esperimento fu, ovviamente, l’amore. Penserete “che banalità!”, e lo pensava anche lei in realtà. Qualcosa nelle favole e nei romanzi d’amore non l’aveva mai convinta del tutto, e non sto parlando solo della storiella del ranocchio (palese tentativo di convincere le belle donne che anche i cessi possono renderle felici) ma dell’attesa. Proprio così, l’attesa. Fateci caso: che si tratti di favole o di film, c’è sempre una donna (raramente un uomo) che aspetta o di essere salvata dalle grinfie di qualche regina cattiva (anche qui raramente uomini cattivi… seriamente????) o di ricevere una qualche prova che le restituisca la fiducia nell’amore (solo dopo che il principe di turno ha involontariamente fatto cadere il suo cuore nel tritarifiuti). Ben presto, infatti, si era resa conto che questa storia dell’attesa era una grande fregatura per le donne, perché mentre loro si fermavano ad attendere la trasformazione (ahimè, spesso solo interiore) del ranocchio, gli uomini andavano avanti e le superavano sul lavoro, e non solo: mostravano la loro spada lucente a molte più principesse di quelle che effettivamente salvavano!  E le donne? Addormentate! in tutti i sensi.

Ad ogni modo l’esperimento fu un fallimento totale, che provò a ripetere più volte nel corso degli anni ma con risultati sempre più deludenti, seguendo lo schema di una relazione inversamente proporzionale: più lei si impegnava (e si impegnava tanto, per dio! Fino alla fine, come in ogni cosa che faceva) più l’altro se ne fregava. Anziché un antidoto contro il vuoto cosmico che le procurava la sofferenza degli altri, otteneva un veleno ancora più potente. Così, un giorno decise che se non poteva smettere di sentire il dolore del mondo allora lo avrebbe salvato. E come sempre giù per una strada fino in fondo: volontariato, lauree, lavoro, master, tirocini, missioni in luoghi sperduti e pericolosi, dottorato: tutto secondo un progetto logico e ben pianificato, con il fine ultimo di fare la differenza.

Povera illusa.  Come poteva credere davvero che l’universo le avrebbe permesso di dedicare tutte le sue energie in una missione suicida? Non è possibile salvare nessuno a questo mondo, l’unica persona che puoi salvare è te stessa. E dopo averlo fatto, allora puoi offrire quello che hai capito agli altri. Ma prima devi riempire quel vuoto che hai dentro e non puoi farlo senza capire perché lo senti. E così l’universo ti manda il maestro più saggio per impartirti questa lezione.

Il cancro.

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La felicità è un muscolo

La vittoria non è un punto fisso, una meta da raggiungere. È una serie infinita di punti, un percorso che non finisce mai. Non è  l’obiettivo che vuoi realizzare o la malattia che vuoi sconfiggere. Ci sono giorni in cui può sembrarti che lo sia ma è solo un’illusione. La vittoria è dinamica, mutevole, si adatta agli ostacoli e cambia come cambiano le stagioni. Non è il capolinea di una strada dritta, lineare, ma il centro di una spirale infinita.

Tu credi che l’obiettivo che stai perseguendo ti renderà felice e invece dopo averlo raggiunto, capisci che è stata proprio la lotta a colorare la tua vita e che gli ostacoli sono sono delle linee che separano chi eri prima da chi sei dopo averli superati. L’obiettivo in realtà sei e sei sempre stato tu: la vittoria con la V maiuscola, la felicità che non dipende da niente e da nessuno. Quella che viene da dentro, quella assoluta.

Una vittoria senza forma o sapore che quasi sempre arriva silenziosa, senza grandi cerimonie. E così come arriva se ne va. Si perché non è un punto fisso nel tempo e nello spazio, non è un traguardo da oltrepassare, ma piuttosto il carburante che ti permette di arrivarci.  È come una caccia al tesoro, nella quale ogni indizio trovato ti fa andare avanti, ti da la carica che serve per continuare ma non è mai sufficiente da solo per vincere il premio. La felicità assoluta è ciò che ti permette di percepire gli ostacoli come opportunità e la sofferenza importante tanto quanto la gioia.

Eppure anche se l’hai provata una o mille volte, la dimenticherai ogni volta che avrai di fronte una grande sfida. Già, perché in realtà  non è data una volta per tutte. È come vincere una corsa e se vuoi continuare a gareggiare e vincerne altre, dovrai continuare ad allenare le tue gambe. Ecco per la felicità assoluta vale lo stesso, è come un muscolo e va allenata e la vittoria non è il premio in sè ma il continuo allenamento che ti permette di vincerlo.

 

 

 

Come mi merito

Tanti sono stati i rifiuti e gli abbandoni e per troppo tempo ho creduto che il motivo fosse che ero una persona “difficile da amare”.

Quando un fraintendimento inaspriva la comunicazione, non mi sono mai accontetata di un “lasciamo perdere”, perché so bene che a furia di lasciar correre ti scappa via anche il sentimento.

Quando era necessario impegnarsi di più, ho sempre lottato allo stremo delle mie forze, spesso anche per l’altra persona. E questo gli ha permesso di adagiarsi sugli allori e considerarmi “scontata”, per poi stupirsi dei miei crolli emotivi.

Quando l’altro non si comportava all’altezza della persona che voleva essere, ho sempre cercato di farglielo notare e lui ha preferito vedere una critica su ciò che era andato male, dove invece c’era la fiducia in ciò che poteva essere migliorato.

Ho sempre pensato di aver sbagliato tutto. Oggi so che non sono io ad essere “difficile” ma sono le persone che si sono allontanate da me, che non avevano il cuore abbastanza grande da contenere l’universo che ho dentro; che non avevano la coerenza necessaria per rimanere fedeli alle promesse che mi avevano fatto; ma soprattutto, che non avevano la speranza né il coraggio di lottare per il mondo che io ancora credo possibile.

Eh si, io non sono “difficile da amare” ma di certo, non è facile amarmi come io mi merito.

 

 

 

 

 

 

 

 

Il buddismo ci insegna che decidere è  il passo fondamentale nel percorso verso la nostra rivoluzione umana. Ma noi  non abbiamo potere di scelta su ciò che ci accade. La scelta riguarda però il modo in cui decidiamo di affrontarlo.

La scelta è ciò che rende prezioso ogni momento, che rende importante o meno una persona o un luogo: perché stare con lei e non con un’altra? perché scegliere di vivere in un posto piuttosto che un altro? Perché  l’abbiamo scelto!

Per questo è saggio non scegliere in balia delle emozioni (o degli ormoni!), e non prendere decisioni importanti con lo stato vitale basso o durante un momento critico.

Questo è lo scopo del daimoku: pulire la nostra mente e il nostro cuore dalle conseguenze delle azioni del passato, dalle cause negative, dal karma.

Il daimoku è come il tergicristallo che pulendo i vetri della macchina ci permette di vedere e quindi imboccare la strada giusta.

Per me è un mezzo per non perdermi nel caos del mio universo interiore appena ri-esploso.

Per questo ho deciso che non prenderò più decisioni importanti senza prima ripulire bene il mio parabrezza della vita, per poter avanzare. E anche il lunotto.. In caso di retromarcia!!

Una seconda possibilità

Uno dei miei scrittori preferiti una volta ha detto che gli esseri umani non nascono solo una volta ma che la vita li costringe più volte a partorirsi da sé.

Ed è così che mi sento: non rinata ma proprio ri-partorita, appena fuori da quel tunnel che credevo fosse la morte e invece era la vita.

E come se il cancro avesse ucciso quella parte di me che mi aveva fatta ammalare, la parte giudicante e per nulla compassionevole nei miei confronti, quella che amava troppo gli altri perché incapace di amare se stessa.

E così a distanza di pochi giorni dalla radio avevo smesso di esistere, una morte emotiva. Non sentivo più nulla, né gioia né dolore. E per mesi ho vissuto con il pilota automatico inserito: sveglia presto, lavarsi, cucinare, andare in palestra, fare terapia, lavorare ma tutto senza esserci davvero. Osservavo le mie giornate come una spettatrice esterna e mi chiedevo se il limbo in cui ero caduta avesse una via d’uscita.

E poi piano piano ho ricominciato a essere e a sentire, ma senza quelle tendenze tossiche che mi hanno avvelenata per quasi tutta la mia esistenza. Sono tornata una vergine delle emozioni, con il contatore del cuore azzerato.

È  stato difficile orientarsi nel caos del mio nuovo universo interiore e ancora adesso mi muovo a tentativi, gattonando e cercando l’equilibrio per potermi alzare in piedi. È  una nuova sfida, finalmente!

Guardo me stessa e gli altri con occhi nuovi, pieni di stupore per le cose e le persone meravigliose che mi circondano. Mi sorprendo di come la vita si faccia strada nei modi più impensabili, anche attraverso la morte e mi sento grata di aver avuto una seconda possibilità…

…mi sento grata di aver avuto il cancro.

 

Io sono un’eroina

Le persone che non provano empatia sanno – intuiscono più che altro – che c’è qualcosa in loro che non è  al posto giusto. Queste persone sono costrette a fingere di provare tristezza o indignazione quando in realtà non provano niente. È  faticoso. Passano metà del loro tempo a odiare chi invece sente e sente anche tanto.

E così un giorno iniziano a denigrare. Per non sentirsi in difetto cercano di sminuire l’altro. Chi è  empatico viene quindi etichettato come troppo sensibile, esagerato, polemico.

Se poi si tratta di una donna..  “è  isterica, ha le mestruazioni, non scopa da tanto tempo”, e chi più ne ha più ne metta.

Poi ci sono i subdoli.. Quelli che per sentirsi a posto con la loro coscienza fingono di preoccuparsi, raccontando in giro che lei “è  troppo fragile, dopo quello che ha passato poverina, è  troppo sensibile, traumatizzata, ferita..”

Beh.. Caro amico, se tu sentissi la metà di quello che provo io ti saresti già  tolto la vita da un pezzo. Immagina il dolore che proveresti perdendo la persona che ami di più al mondo, e ora immagina di perderla ogni giorno, per ogni volta che qualcuno viene ucciso, stuprato, abbandonato. Ecco come mi sento io. Da sempre. Da quando ho memoria di me.

E invece di suicidarmi mi alzo dal letto tutti i giorni, mi lavo, mi preparo da mangiare, lavoro, mi curo.

E in questi anni ho studiato dedicando tutta la mia vita a cambiare del mondo ciò  che mi fa male, mi sono laureata tre volte, ho girato il mondo lavorando con i bambini ovunque ci sia un’emergenza, sono guarita dal cancro solo per continuare a farlo.

Non osare mai più definirmi fragile o ipersensibile per giustificare il tuo silenzio davanti all’orrore.

Io sono un’eroina e il mio super potere è  proprio la mia empatia.

 


Las personas que no sienten empatía saben – sienten más que nada – que hay algo en ellos que no está en el lugar correcto. Estas personas se ven obligadas a fingir estar tristes o indignadas cuando en realidad no sienten nada. Y esto es agotador. Pasan la mitad de su tiempo odiando a aquellos que sienten tanto.

Y así, un día comienzan a denigrar. Para no sentirse culpables tratan de menospreciar a las otras personas. Aquellas que son empáticas son etiquetadas como demasiado sensibles, exageradas, beligerantes.

Además, si se trata de una mujer, ella “es histérica, tiene menstruación o no ha follado durante mucho tiempo”.

Luego están los hipócritas… Aquellos que, para sentirse cómodos con su conciencia, fingen estar preocupados, diciendo que “ella es demasiado frágil, después de lo que ha pasado, es demasiado sensible, traumatizada, herida …”

Bueno… querido amigo, si hubieras sentido la mitad de lo que siento, te habrías quitado la vida desde hace un tiempo ya. Imagina el dolor que experimentarías al perder a la persona que amas más en todo el mundo, y ahora imagina perderla todos los días, cada vez que alguien es asesinado, violado, abandonado. Así es como me siento. Siempre. Desde que tengo memoria de mi.

Y en lugar de suicidarme, me levanto todos los días, me lavo, me alimento, trabajo, me cuido.

Y en estos años he estudiado, dedicando toda mi vida a cambiar en el mundo lo que me duele; me gradué tres veces, viajé por todas partes, trabajando con niños donde haya una emergencia y me recuperé de un cáncer solo para seguir haciéndolo.

Nunca te atrevas a llamarme frágil o hipersensible otra vez para justificar tu silencio frente al horror.

No soy frágil. Soy una heroína y mi superpoder es justo mi empatía.

Mi merito tutto

Non dimenticherò mai il 31 maggio 2017. Quel giorno ho avuto il coraggio di credere che mi merito il massimo dalla vita, chiudendo alle mie spalle la gabbia che mi teneva prigioniera da due anni. E quell’azione coraggiosa è stata una causa enorme nella mia vita, una causa che mi ha regalato tantissimi effetti. Il primo è stato un bacio quella sera stessa: il tuo, interrotto da un ragazzo che vendeva rose. In quel momento tu mi hai guardato con dolcezza e hai detto “le prendo tutte!”. L’ambiente è solo uno specchio di ciò che abbiamo nel cuore e quella sera la risposta del mio ambiente è stata “ti meriti tutto!”.

 

Decalogo delle frasi tipiche che ho deciso di non dire assolutamente quando qualcuno sta male:

  1. Decidi.
  2. Forse non hai deciso profondamente.
  3. Recita e tutto andrà bene.
  4. Non lamentarti.
  5. Non hai una forte fede.
  6. Non hai messo Kosen Rufu al centro della tua vita.
  7. E’ il tuo karma (quando qualcuno mi rimprovera di qualcosa).
Ognuna di queste frasi, esplicitamente o implicitamente, dà un giudizio sull’altra persona, sul suo comportamento o sulla sua fede.
1. e 2. significano “non hai deciso”.
3. Non stai recitando, o non stai recitando bene.
4. Ti stai lamentando.
5. e 6. chiarissime, già così come sono.
7. emerita stronzata per deresponsabilizzarsi.
Ecco, forse queste frasi le avrò dette anche io in passato, non lo so e non ricordo. Ma oggi quando qualcuno sta male, ascolto. Ascolto. Poi ancora Ascolto. Dopo -forse – parlo: o racconto una mia esperienza che può essere simile, oppure leggo Sensei o Nichiren.
Essere responsabili non significa avere le risposte, o poter giudicare la fede e la pratica degli altri. Essere responsabili significa solo decidere di includere la felicità di tutti nella propria e di conseguenza sostenere gli altri, senza giudicarli, con un ascolto attivo e cercando le risposte insieme a loro, fra le parole dei nostri maestri.

Cari amici buddisti, ho una confessione da farvi…

… quando ho scoperto che avrei potuto perdere la voce a causa del tumore, avrei voluto uccidervi tutti a colpi di scarpe lanciate addosso ogni volta che mi avete risposto con la tipica frase “decidi e non perderai la voce”. Non è così. Noi possiamo decidere che tutto ciò che accade sarà la cosa giusta per la nostra felicità, decidere di avere una fede così grande da credere che possiamo affrontare tutto e trasformare qualsiasi ostacolo in occasione. Possiamo essere certi che tutte le sfide arrivano solo nel momento in cui siamo in grado di affrontarle e che sicuramente avverranno nelle condizioni più favorevoli possibili, con le più grandi protezioni dell’universo. Ma non possiamo credere che recitare significhi che niente di brutto ci accadrà. Non siamo qui per scansare le difficoltà, siamo qui per superarle nel modo più creativo, più luminoso e più efficace possibile. Quando una persona non realizza un obiettivo si sente frustrata e mette in dubbio se stessa e la propria fede, spesso proprio a causa di questa superficialità nell’incoraggiare. La pratica non è una bacchetta magica.. è un catalizzatore di esperienze, di vita vissuta al massimo, di montagne gigantesche macinate fino a granelli minuscoli. Quando ho saputo di avere un tumore la prima cosa che ho pensato (piangendo si!) è stato “guarda che giro mi sta facendo fare la vita”, certa che avrei vinto.. ma che la vittoria sarebbe stata provare con la mia vita questo buddismo, in qualsiasi modo la vita avrebbe deciso, contro ogni cattivo amico o dubbio, contro ogni ostacolo che si sarebbe piazzato davanti. Questo non significa che gli obiettivi non si realizzano (io non ho perso la voce per esempio!), solo che anche quando non si realizzano non siamo noi che non andiamo bene (o la nostra fede, o “è solo che non hai deciso profondamente!). E’ la vita che sa molto meglio di noi cosa siamo in grado di fare e in che modo dobbiamo arrivare a quella realizzazione. La vita sa dove sta davvero la nostra felicità e spesso essa non coincide con quello che comunemente siamo portati a pensare.

Quindi da ora in poi, vi prego di fare attenzione quando incoraggiate qualcuno! Non promettete qualcosa di cui non potete avere la certezza; non perché il Gohonzon non funziona ma perché il Gohonzon la sa molto più lunga di noi!

Una causa felice

Non mi ero mai resa conto che non piangiamo solo dagli occhi. Da quando mi hanno operato e ho un taglio alla gola, piangere è diventato impossibile, più di parlare e più di mangiare. E oggi avrei tanto voluto piangere.

Ho passato il pomeriggio piegata in due dal dolore alla cervicale e alla testa. Mentre ero stesa sul letto con le persiane chiuse, complice il buio che c’era nella stanza, la mia oscurità mi ha attaccato per l’ennesima volta. Ha sparato tutti i proiettili che aveva in canna: le paure, i dubbi, gli obiettivi non realizzati.

“Eccoti qua… paralizzata dal dolore il giorno prima del 18 novembre. Non dovevi avere la tua famiglia entro questa data? E invece rischi la vita, da sola, con tutti i tuoi problemi moltiplicati per mille grazie a questa situazione: dottorato sospeso, rapporto con la mamma peggiorato, tutte le preoccupazioni amplificate dalla tua condizione e se dovesse succedere qualcosa adesso, non saresti in grado di fare niente per nessuno.  Da ieri hai ricominciato a fare daimoku e sei anche andata a zadankai e a cosa è servito? Sei sicura che vuoi ricevere dei risultati positivi? Sei sicura che vuoi vivere? Per cosa?”

E così per un’ora. L’ho ascoltata, mi sono fatta colpire ancora e ancora. Senza piangere, respirando piano, sotto le coperte. E poi mi sono detta: “Ok, la situazione è questa. Che vuoi fare?” E la risposta è stata naturale: “voglio essere felice”. E questa volta non è stato un desiderio nato dalla sofferenza o dalla paura. Non è stato un “voglio essere felice perché non voglio più stare male”. E’ stato un vero “voglio essere felice così come sono, qui, in questa situazione: ho una malattia, voglio essere felice! non ho una figlia, voglio essere felice! Non ho una famiglia, voglio essere felice!” E lì, in quel preciso istante è arrivata una illuminazione: anche tutti gli obiettivi che mi ero prefissata per il 18 novembre erano frutto della mia oscurità: volevo una famiglia per non stare da sola, per paura, perché ce l’hanno tutti…

E poi BAM! un’altra consapevolezza mi ha trafitto il cuore e lì è arrivato il nodo in gola: il nucleo della famiglia armoniosa che volevo costruire sono io, con questo corpo che ho martoriato per anni, che non ho rispettato mangiando troppo o troppo poco, che ho abbandonato alle violenze fisiche e psicologiche di altre persone, ignorando i miei bisogni, somatizzando tutte le mie ansie. Avrei voluto piangere ma mi faceva troppo male e allora mi sono abbracciata, mi sono data dei baci sulle mani, sulle braccia… ho provato compassione per me stessa e poi mi sono detta spontaneamente e umilmente: “SEI MERAVIGLIOSA”.

E’ stato come togliere un grosso macigno sul mio petto, e mi si è alzato lo stato vitale.

E ho rideterminato:

“Da oggi reciterò per trovare il vero motivo per cui voglio una famiglia, quello che non è influenzato dal karma, dalle paure, dalle pressioni sociali: una causa pura, pulita, felice.”

Così, oggi 17 novembre 2017, rilancio per il prossimo 18 novembre 2018!

 

L’amore è sempre l’unica risposta

La verità è che lo sforzo più grande sta nel riuscire a non ridurre tutta la tua vita, tutto il tuo corpo a quella parte di te che è impazzita.

Non riesci a credere che la gente non ti veda solo come un cancro che cammina, eppure tu non hai mai ridotto nessuno alle sue parti rotte, non hai mai considerato una persona malata meno persona.

La verità è che sei tu che ti riduci alle tue mancanze, ai tuoi fallimenti, alle tue cellule malate. E sei tu a dover allargare la visione di te, a riempire la tua vita così tanto che le sofferenze ci navigheranno dentro invece di prosciugarla.

Se solo riuscissi ad amarti veramente. E amare proprio tutto. Soprattutto quel pezzetto di te che ti sta gridando dentro.

L’amore è sempre l’unica risposta. Non è mai quella facile, però.

 

 

La vera lotta

Quando ti dicono che hai un tumore succedono due cose strane. La prima è che mentre leggi il messaggio o ascolti la persona che te lo sta dicendo smetti all’improvviso di essere lì dove sei, in quel momento presente. Proprio come nei film, cominci a sentire tutto in modo ovattato e non riesci a seguire più il discorso: tutto si ferma a quel “mi spiace informarla che…”. Torni dopo qualche ora, dopo un bel pianto e un’amica che ti abbraccia forte. Ci metti un po’ ma torni. La seconda cosa strana è che continui ad andare via e tornare. Cammini per strada, parlando con qualcuno, e all’improvviso ricordi “ho un tumore!” e la tua mente esce fuori da quell’attimo. Ridi con i tuoi coinquilini e di nuovo torna quella consapevolezza, di nuovo non ci sei più. Mangi. Esci. Guardi un telefilm. Lavori. E non ci sei. Non sei più nel presente. Sei nel futuro. Quello che ti immagini. Un futuro dove i tuoi cari piangono, dove tu non hai le forze di continuare a lavorare, dove non esiste una relazione sentimentale. Penso che la vera lotta inizia da subito, non dall’appuntamento con il chirurgo o dalla chemio. Inizia nel momento in cui lo scopri, in cui cominci a sentirlo crescere dentro di te. C’era da molto ma appena ti informano della sua presenza, è lì che inizi a percepire che qualcosa non va, che tu non sei più completamente tu. E la vera lotta è rimanere aggrappata al presente e non lasciare che la paura prenda il sopravvento, è rimanere la vera te, quella che combatte nonostante tutto, che ama nonostante tutto, che sogna nonostante tutto. Rimanere quella che hai imparato ad essere, affrontando sfide più grandi di quel pezzetto di tumore.