Con l’infinito dentro

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La enfermedad me quitó la fuerza física, me privó de mi tiempo y de mi ritmo frenético. Se impuso sobre mi alma y mi cuerpo, obligándome a ser tocada, cortada, abierta y cosida por manos desconocidas. Me erosionó lentamente, borrando lo que era. Y ahora estoy aquí, obligada a reconstruirme, a reinventarme, a darme nuevos ritmos. Ahora tengo que dedicarme tiempo y darme espacio aunque todavía no sepa cómo hacerlo. Poco a poco empiezo a reevaluar mis elecciones, a reconsiderar lo que creía importante. La enfermedad te quita tanto que te obliga a apreciar lo que queda: deseos, pasiones, sentimientos, amistades. Y luego, cava un vacío en tus días para que tú veas los demonios de los cuales escapaste toda tu vida, primero entre todos el miedo a vivir.

Frente a monstruos tan grandes, lo único que puedes hacer es luchar o dejarte llevar, pero no puedes decidir qué hacer una vez por todas. No, no es una elección de un instante, sino una elección de cada momento, de cada día. Ese es el verdadero desafío: relanzar continuamente contra cada duda, cada miedo, cada sombra que serpentea en tu mente. Contra esa vocecita que te dice como nunca serás de nuevo sana, más fuerte, más enérgica, y que te hace temblar con cada punzada de dolor, gritando esas malditas cuatro palabras: “será así para siempre”.

Luchas o mueres, pero no de cáncer… de miedo.

Lo único que puedes hacer contra el miedo es soñar. Y así sueño. Sueño con todo mi corazón y todo mi cuerpo. Sueño con una Elisabeth fuerte y libre, que corre de nuevo, que viaja por todas partes, que se sienta en el suelo con sus niños en un campamento de refugiados o en una aldea perdida en una selva, tal como era antes.

Sueño con una Elisabeth que se ama y ama el mundo. Una Elisabeth con el infinito dentro de sí. La sueño y la pinto.

Volver a soñar es mi primera ACCIÓN…


La malattia mi ha tolto le forze fisiche, mi ha privato del mio tempo e dei miei ritmi frenetici. Si è imposta sulla mia anima e sul mio corpo, costringendomi a essere toccata, tagliata, aperta e ricucita da mani sconosciute. Mi ha erosa piano piano, cancellando quella che ero.

E ora sono qui, costretta a ricostruirmi, a reinventarmi, a concedermi ritmi nuovi. Adesso devo dedicarmi tempo e darmi spazio anche se non so ancora come si fa. Inizio piano piano a rivalutare le mie scelte, a riconsiderare ciò che credevo importante. La malattia ti toglie così tanto che ti costringe ad apprezzare quello che resta: i desideri, le passioni, i sentimenti, le amiche vere, la pratica. E poi scava il vuoto nelle tue giornate per farti vedere i demoni da cui sei scappata tutta la vita, prima fra tutte la paura di vivere.

Davanti a mostri così grandi l’unica cosa che puoi fare è lottare o lasciarti andare, ma  non puoi decidere cosa fare una volta per tutte. No, non è una scelta di un istante, ma una scelta di ogni istante, di ogni giorno. E’ quella la vera sfida: rilanciare in continuazione contro ogni dubbio, ogni timore, ogni ombra che serpeggia nella tua mente. Contro quella vocina che ti racconta come non sarai mai più sana, forte, veloce, energica, e che ti fa tremare ad ogni fitta di dolore, sibilandoti quelle maledette quattro parole: “sarà così per sempre”.

Lottare o morire, ma non di cancro. Di paura.

Contro la paura l’unica cosa che puoi fare è sognare. E così sogno. Sogno con tutto il cuore e con tutto il corpo. Sogno una Elisabeth forte e libera, che corre di nuovo, che viaggia in lungo e in largo, che si siede a terra con i suoi bambini in un campo profughi o in un villaggio sperduto nella foresta, proprio come una volta. Sogno una Elisabeth che si ama e che ama il mondo. Una Elisabeth con l’infinito dentro.

La sogno e la dipingo.

Tornare a sognare è la mia prima azione…

 

 

 

Decalogo delle frasi tipiche che ho deciso di non dire assolutamente quando qualcuno sta male:

  1. Decidi.
  2. Forse non hai deciso profondamente.
  3. Recita e tutto andrà bene.
  4. Non lamentarti.
  5. Non hai una forte fede.
  6. Non hai messo Kosen Rufu al centro della tua vita.
  7. E’ il tuo karma (quando qualcuno mi rimprovera di qualcosa).
Ognuna di queste frasi, esplicitamente o implicitamente, dà un giudizio sull’altra persona, sul suo comportamento o sulla sua fede.
1. e 2. significano “non hai deciso”.
3. Non stai recitando, o non stai recitando bene.
4. Ti stai lamentando.
5. e 6. chiarissime, già così come sono.
7. emerita stronzata per deresponsabilizzarsi.
Ecco, forse queste frasi le avrò dette anche io in passato, non lo so e non ricordo. Ma oggi quando qualcuno sta male, ascolto. Ascolto. Poi ancora Ascolto. Dopo -forse – parlo: o racconto una mia esperienza che può essere simile, oppure leggo Sensei o Nichiren.
Essere responsabili non significa avere le risposte, o poter giudicare la fede e la pratica degli altri. Essere responsabili significa solo decidere di includere la felicità di tutti nella propria e di conseguenza sostenere gli altri, senza giudicarli, con un ascolto attivo e cercando le risposte insieme a loro, fra le parole dei nostri maestri.

L’amore è sempre l’unica risposta

La verità è che lo sforzo più grande sta nel riuscire a non ridurre tutta la tua vita, tutto il tuo corpo a quella parte di te che è impazzita.

Non riesci a credere che la gente non ti veda solo come un cancro che cammina, eppure tu non hai mai ridotto nessuno alle sue parti rotte, non hai mai considerato una persona malata meno persona.

La verità è che sei tu che ti riduci alle tue mancanze, ai tuoi fallimenti, alle tue cellule malate. E sei tu a dover allargare la visione di te, a riempire la tua vita così tanto che le sofferenze ci navigheranno dentro invece di prosciugarla.

Se solo riuscissi ad amarti veramente. E amare proprio tutto. Soprattutto quel pezzetto di te che ti sta gridando dentro.

L’amore è sempre l’unica risposta. Non è mai quella facile, però.

 

 

Chissà come sarebbe..

Chissà come sarebbe la mia vita se riuscissi sempre a vedere gli errori miei e degli altri attraverso l’ottica buddista, secondo la quale ogni veleno si può trasformare in medicina. Con quanta leggerezza vivrei riuscendo ad avere in ogni istante la lucidità di questo momento, quella consapevolezza che mi riempie di gioia perché mi fa sentire che tutto ha un senso. Tutto tutto.

Come sarebbero le miei giornate se riuscissi a ricordare questo attimo di chiarezza, in cui vedo perfettamente come ogni sofferenza mi sia servita ad arrivare fino a qui?  Sentendo, come lo sento adesso, che non avrei mai potuto capire chi soffre senza attraversare la sua stessa sofferenza. Provando una gratitudine profonda e vera verso chi mi ha ferito e addirittura, sentendo che proprio quella persona è il mio più caro “buon amico”. Questo istante di vita in cui c’è davvero spazio per ognuno nel mio cuore, perché tutti sono utili alla mia crescita. Tutti tutti.

Ma so già che questo momento di illuminazione svanirà presto, risucchiato dalla routine e dalle nuove sfide di ogni giorno. So già che la prossima volta in cui quella persona farà nuovamente qualcosa che mi ferirà, scorderò tutto e dovrò ricominciare daccapo. E allora, lo scrivo. Lascio alla mia me stessa del futuro un post, uno spunto di riflessione a cui aggrapparsi quando, per l’ennesima volta, penserà di strangolare il suo ex a mani nude o di fare un gestaccio a chi la tratta male.

Eli ricorda! Siamo tutti Buddha meravigliosi. Tutti tutti.

(Anche se qualche volta non sembra!)

La mia rivoluzione umana

La responsabilità non è una carica, un titolo o un lavoro. La responsabilità è un tipo di relazione. D’amore.

Si, d’amore ma senza cuoricini e “rose e fiori”. E un amore fuori dagli schemi a cui siamo abituati, quello che proviamo solo se siamo ricambiati o se le persone si comportano bene con noi – per intenderci.

Quando ho ricevuto la responsabilità ho sofferto molto. Non mi sentivo all’altezza. Non pensavo di riuscire a sostenere le altre giovani donne. Soprattutto non credevo di riuscire a desiderare veramente la felicità di tutte e non solo delle giovani donne a cui già volevo bene.

E’ stata una grande lotta contro la mia oscurità. Ogni giovane donna all’improvviso è diventata uno specchio che rifletteva qualcosa di me, bella o brutta.

Ricordo ancora la mia prima visita a casa, quando ancora non ero neanche stata nominata. Uscii da casa di Delia felicissima perché ero riuscita ad incoraggiarla sull’amore. (Io? Ahahuahuaha)

La seconda visita a casa invece fu un fallimento. Alessia, una giovane donna appena trasferitasi da Firenze, che come prima cosa mi disse: “Ascolta Elisabeth, io e te non saremo mai amiche e io non voglio fare attività qua a Pisa, voglio tornare a Firenze quindi non voglio creare legami.”. Sul momento fu una grande sofferenza, anche se non le diedi modo di accorgersene. Tornai a casa e cominciai a fare daimoku per alleviare quella sofferenza, finché non arrivò la prima illuminazione. Io ero la sua responsabile, non dovevo recitare per non provare sofferenza ma per la sua felicità, e se la sua felicità era non creare legami a Pisa e tornare a Firenze, io l’avrei sostenuta. Adesso è una delle mie più care amiche e sta facendo una rivoluzione umana incredibile, proprio qui a Pisa.

Col tempo alcune cose sono diventate più facili, altre si sono complicate ma ben presto sono riuscita a sentirmi una vera responsabile. E proprio quando ho sentito questa grande soddisfazione è arrivata la sfida più grande di tutte.

Essere la responsabile anche di persone che non fanno parte della mia vita, che non rispondono ai miei messaggi o non mi salutano. Persone a cui non sto simpatica o che non mi stanno simpatiche.

La prima volta è successo questa estate. Riuscire ad accogliere come qualsiasi altra giovane donna, durante un turno di protezione, una giovane donna che mi aveva ferito. Questa era la sfida da byakuren e responsabile. Vorrei poter dire che non è stata una sofferenza ma non è così. Dal momento in cui seppi che a quel turno avrei dovuto proteggere anche lei, un dolore incredibile si impossessò di me. Il dolore di doverla vedere e di condividere i miei compagni di fede, il dolore del senso di colpa per non riuscire a desiderare la sua felicità, il dolore di non sentirmi all’altezza della situazione, quello di non provare più felicità nel fare attività. Non ricordo quanto daimoku feci, ma ricordo che il giorno stesso del meeting recitai per 6 ore di fila senza sentire nessun miglioramento. Mi sentivo sconfitta. Il viaggio in macchina fu una sofferenza indicibile, ogni dosso sulla strada sembrava una pugnalata al cuore.

Eppure, appena misi il piede a terra mi sentii leggera e felice. Incredibilmente percepii la temporaneità di quella sofferenza. Pensai “da qui a qualche mese questo dolore sarà solo un ricordo, ma la sua vita ha un valore che durerà in eterno e se comincerà a praticare anche lei contribuirà a Kosen Rufu per sempre”. L’accolsi con un sorriso sincero e puro,  che la colpì. Aveva una faccia stordita ma ben presto si rilassò e per tutta la serata fu molto carina con me. Io ero felicissima. E mi sentivo orgogliosa di me, “una donna dal rispetto di sé illimitato” proprio come l’obiettivo che avevo stabilito per quel turno,  due settimane prima quando ancora non sapevo che lei avrebbe partecipato.

Da lì in poi molte altre volte mi sono dovuta sfidare nella responsabilità. Continuare a recitare per la ragazza che mi da sempre buca, quella che non mi risponde mai, quella che nemmeno mi parla e così via. Ma ci sono anche le migliaia di volte in cui mi vorrei arrendere e mi scrive una giovane donna disperata, che vuole smettere di lottare, e proprio dare l’esempio a lei mi lancia in orbita come un razzo; oppure ci sono le volte in cui ricevo messaggi in cui mi scrive una giovane donna che non riusciva a trasformare niente e finalmente ce l’ha fatta. Mi ringrazia per il sostegno e mi sembra che tutto quello che ho  attraversato sia servito giusto per sostenere lei.

Sono più le soddisfazioni. Sempre.
Anche quando non ho un bel rapporto con una giovane donna è esattamente la sfida di cui ho bisogno. Mi fa vedere proprio quella cosa di me che mi ostino a non guardare e quando finalmente prendo coraggio e affronto quella sofferenza che in realtà è solo mia, smetto di soffrire, riesco a recitare con tutto il cuore per quella persona e la maggior parte delle volte risolvo. E quando non risolvo sono serena, perché sento che io ho fatto il mio pezzo di strada e devo dare modo anche a lei di fare il suo. Con i suoi tempi.

[…]

Non è un caso che abbia sentito questo grande desiderio di scriverti proprio oggi che c’è l’ultimo meeting giovani e l’argomento è proprio la rivoluzione umana nella quotidianità. Non c’è niente che mi faccia fare la mia Rivoluzione Umana più della responsabilità.
Ogni giorno faccio un’esperienza. Ogni giorno sono quasi “costretta” a mettermi davanti al Gohonzon, perché se non mi chiama una giovane donna che vuole recitare con me, di sicuro ce n’è un’altra che sta male e vuole smettere di praticare oppure un’altra che mi manda l’incoraggiamento giusto oppure quella che mi fa stare male perché mi ignora. E poi quella per cui ancora non riesco a desiderare la felicità e quella invece che sta facendo un’esperienza allucinante. Ognuna di loro, ognuna è meravigliosa e ognuna è nel mio daimoku e questa cosa è più forte di un litigio, di un’amicizia, di una differenza di opinioni e di qualsiasi cosa temporanea e impermanente che esiste nella mia vita. Questa cosa è eterna. È il centro di gravità della mia vita e va di pari passo con la pratica. È la mia rivoluzione umana. E la volevo condividere con te.