Con l’infinito dentro

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La enfermedad me quitó la fuerza física, me privó de mi tiempo y de mi ritmo frenético. Se impuso sobre mi alma y mi cuerpo, obligándome a ser tocada, cortada, abierta y cosida por manos desconocidas. Me erosionó lentamente, borrando lo que era. Y ahora estoy aquí, obligada a reconstruirme, a reinventarme, a darme nuevos ritmos. Ahora tengo que dedicarme tiempo y darme espacio aunque todavía no sepa cómo hacerlo. Poco a poco empiezo a reevaluar mis elecciones, a reconsiderar lo que creía importante. La enfermedad te quita tanto que te obliga a apreciar lo que queda: deseos, pasiones, sentimientos, amistades. Y luego, cava un vacío en tus días para que tú veas los demonios de los cuales escapaste toda tu vida, primero entre todos el miedo a vivir.

Frente a monstruos tan grandes, lo único que puedes hacer es luchar o dejarte llevar, pero no puedes decidir qué hacer una vez por todas. No, no es una elección de un instante, sino una elección de cada momento, de cada día. Ese es el verdadero desafío: relanzar continuamente contra cada duda, cada miedo, cada sombra que serpentea en tu mente. Contra esa vocecita que te dice como nunca serás de nuevo sana, más fuerte, más enérgica, y que te hace temblar con cada punzada de dolor, gritando esas malditas cuatro palabras: “será así para siempre”.

Luchas o mueres, pero no de cáncer… de miedo.

Lo único que puedes hacer contra el miedo es soñar. Y así sueño. Sueño con todo mi corazón y todo mi cuerpo. Sueño con una Elisabeth fuerte y libre, que corre de nuevo, que viaja por todas partes, que se sienta en el suelo con sus niños en un campamento de refugiados o en una aldea perdida en una selva, tal como era antes.

Sueño con una Elisabeth que se ama y ama el mundo. Una Elisabeth con el infinito dentro de sí. La sueño y la pinto.

Volver a soñar es mi primera ACCIÓN…


La malattia mi ha tolto le forze fisiche, mi ha privato del mio tempo e dei miei ritmi frenetici. Si è imposta sulla mia anima e sul mio corpo, costringendomi a essere toccata, tagliata, aperta e ricucita da mani sconosciute. Mi ha erosa piano piano, cancellando quella che ero.

E ora sono qui, costretta a ricostruirmi, a reinventarmi, a concedermi ritmi nuovi. Adesso devo dedicarmi tempo e darmi spazio anche se non so ancora come si fa. Inizio piano piano a rivalutare le mie scelte, a riconsiderare ciò che credevo importante. La malattia ti toglie così tanto che ti costringe ad apprezzare quello che resta: i desideri, le passioni, i sentimenti, le amiche vere, la pratica. E poi scava il vuoto nelle tue giornate per farti vedere i demoni da cui sei scappata tutta la vita, prima fra tutte la paura di vivere.

Davanti a mostri così grandi l’unica cosa che puoi fare è lottare o lasciarti andare, ma  non puoi decidere cosa fare una volta per tutte. No, non è una scelta di un istante, ma una scelta di ogni istante, di ogni giorno. E’ quella la vera sfida: rilanciare in continuazione contro ogni dubbio, ogni timore, ogni ombra che serpeggia nella tua mente. Contro quella vocina che ti racconta come non sarai mai più sana, forte, veloce, energica, e che ti fa tremare ad ogni fitta di dolore, sibilandoti quelle maledette quattro parole: “sarà così per sempre”.

Lottare o morire, ma non di cancro. Di paura.

Contro la paura l’unica cosa che puoi fare è sognare. E così sogno. Sogno con tutto il cuore e con tutto il corpo. Sogno una Elisabeth forte e libera, che corre di nuovo, che viaggia in lungo e in largo, che si siede a terra con i suoi bambini in un campo profughi o in un villaggio sperduto nella foresta, proprio come una volta. Sogno una Elisabeth che si ama e che ama il mondo. Una Elisabeth con l’infinito dentro.

La sogno e la dipingo.

Tornare a sognare è la mia prima azione…

 

 

 

Cinque cose che ho capito in cinque mesi

Tutto nella vita ti nutre o ti insegna qualcosa. Tutto. Anche quello che fa male.

La mia ultima dolorosa sconfitta nel campo di battaglia più spietato (ovvero l’amore… ebbene si, non è la malattia, credetemi!),  non fa eccezione.

In poco meno di cinque splendidi e complicati mesi, ho capito alcune verità che spero di tramandare alle mie figlie.

Primo: ho capito che certe volte il principe azzurro esiste per davvero, ma anche lui ha i suoi BEI DEMONI come tutti!

Secondo: ho capito che anche se dai il massimo e ti impegni al 100% non è detto che questo sforzo venga apprezzato o venga eguagliato dallo sforzo dell’altra persona. Sei tu che devi apprezzarlo e sei tu che devi trasformarlo in qualcosa di prezioso per il tuo percorso di crescita.

Terzo: ho capito che molto spesso iniziare una relazione con un uomo è come presentare il tuo curriculum alla Coop: se sei “troppo qualificata” devi mentire e tendere al ribasso. Ma solo se vuoi accontentarti, se no fai come me e resta single. O cercati una donna.

Quarto: ho capito che in moltissimi casi quello che gli altri fanno non ha nulla a che vedere con te, ma con loro stessi. Non prenderla sul personale, come dice il mio amico Ste.

Quinto: ho capito che quando i tuoi bisogni non vengono mai ascoltati né dalle persone a te care né da te stessa, ti può capitare di ammalarti per farti ascoltare e ascoltarti.

Ed è quello che successo a me, però ho anche capito che non voglio mai più che sia una malattia a rendermi visibile a qualcuno a cui voglio bene, e affinché quel qualcuno pensi che è arrivato il momento di mettermi al giusto posto nella sua vita, senza darmi per scontata.

Ho capito che non voglio essere urgente, voglio essere importante!

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Tirando le fila del blog (lavori in corso)

Stava male. Non riusciva a pensare a nient’altro che a questo. Beh, a questo e anche al suo libro. Sin da quando aveva memoria di sé, aveva sempre saputo che c’era un libro dentro di lei. Non che si credesse una scrittrice o qualcosa di simile, come una blogger o una giornalista. No, no, niente di tutto ciò. Solo che custodiva dentro di sé una storia che andava raccontata, e quale miglior modo di raccontarla se non con un libro?

Che storia? Non lo sapeva e stava male anche per questo. Oltre che per mille altre buonissime ragioni. Si, perché lei non era una di quelle che soffrono per un esame andato male o per un’ammaccatura sulla macchina.  E’ vero che la sofferenza è sofferenza sempre, ma diciamocelo, alcune volte si soffre proprio per delle cazzate! Che so, per una persona che ti insulta sull’autobus o per una donna che ti provoca invidia per quanto è bella, mentre tu sei alta un metro e 62 (sulla carta di identità, se ti va bene!), hai i capelli che sembrano quelli delle barbie a cui hai fatto e rifatto lo shampoo da bambina e le uniche forme che ti ritrovi sono quelle di formaggio con cui ti sfondi a pranzo e a cena (e durante lo spuntino di mezzanotte).

Ma lei no, non si accontentava di soffrire superficialmente. Come per ogni cosa che faceva, andava fino in fondo. E infatti lei soffriva perché sentiva il mondo. O meglio sentiva il mondo quando soffre. Poi aveva anche il cancro e una famiglia che al confronto quella degli Adams sembra il mulino bianco, ma queste erano bazzecole se paragonate al buco che le squarciava il petto e che lei chiamava il vuoto.

Per un periodo della sua vita, durante l’adolescenza, non era riuscita a gestire il suo “sentire” e così aveva iniziato a bere e a fumare erba. Ma era troppo intelligente per non capire che quei sotterfugi non duravano abbastanza e che poi le presentavano un conto molto amaro, fatto di mal di testa, vomito e vuoti ancora più profondi. Così smise, con la stessa lucidità con cui aveva iniziato, e cominciò la sua ricerca di una luce in fondo a quel tunnel, una luce che non fosse solo un miraggio provocato da alcool e stupefacenti.

Il primo esperimento fu, ovviamente, l’amore. Penserete “che banalità!”, e lo pensava anche lei in realtà. Qualcosa nelle favole e nei romanzi d’amore non l’aveva mai convinta del tutto, e non sto parlando solo della storiella del ranocchio (palese tentativo di convincere le belle donne che anche i cessi possono renderle felici) ma dell’attesa. Proprio così, l’attesa. Fateci caso: che si tratti di favole o di film, c’è sempre una donna (raramente un uomo) che aspetta o di essere salvata dalle grinfie di qualche regina cattiva (anche qui raramente uomini cattivi… seriamente????) o di ricevere una qualche prova che le restituisca la fiducia nell’amore (solo dopo che il principe di turno ha involontariamente fatto cadere il suo cuore nel tritarifiuti). Ben presto, infatti, si era resa conto che questa storia dell’attesa era una grande fregatura per le donne, perché mentre loro si fermavano ad attendere la trasformazione (ahimè, spesso solo interiore) del ranocchio, gli uomini andavano avanti e le superavano sul lavoro, e non solo: mostravano la loro spada lucente a molte più principesse di quelle che effettivamente salvavano!  E le donne? Addormentate! in tutti i sensi.

Ad ogni modo l’esperimento fu un fallimento totale, che provò a ripetere più volte nel corso degli anni ma con risultati sempre più deludenti, seguendo lo schema di una relazione inversamente proporzionale: più lei si impegnava (e si impegnava tanto, per dio! Fino alla fine, come in ogni cosa che faceva) più l’altro se ne fregava. Anziché un antidoto contro il vuoto cosmico che le procurava la sofferenza degli altri, otteneva un veleno ancora più potente. Così, un giorno decise che se non poteva smettere di sentire il dolore del mondo allora lo avrebbe salvato. E come sempre giù per una strada fino in fondo: volontariato, lauree, lavoro, master, tirocini, missioni in luoghi sperduti e pericolosi, dottorato: tutto secondo un progetto logico e ben pianificato, con il fine ultimo di fare la differenza.

Povera illusa.  Come poteva credere davvero che l’universo le avrebbe permesso di dedicare tutte le sue energie in una missione suicida? Non è possibile salvare nessuno a questo mondo, l’unica persona che puoi salvare è te stessa. E dopo averlo fatto, allora puoi offrire quello che hai capito agli altri. Ma prima devi riempire quel vuoto che hai dentro e non puoi farlo senza capire perché lo senti. E così l’universo ti manda il maestro più saggio per impartirti questa lezione.

Il cancro.

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Come mi merito

Tanti sono stati i rifiuti e gli abbandoni e per troppo tempo ho creduto che il motivo fosse che ero una persona “difficile da amare”.

Quando un fraintendimento inaspriva la comunicazione, non mi sono mai accontetata di un “lasciamo perdere”, perché so bene che a furia di lasciar correre ti scappa via anche il sentimento.

Quando era necessario impegnarsi di più, ho sempre lottato allo stremo delle mie forze, spesso anche per l’altra persona. E questo gli ha permesso di adagiarsi sugli allori e considerarmi “scontata”, per poi stupirsi dei miei crolli emotivi.

Quando l’altro non si comportava all’altezza della persona che voleva essere, ho sempre cercato di farglielo notare e lui ha preferito vedere una critica su ciò che era andato male, dove invece c’era la fiducia in ciò che poteva essere migliorato.

Ho sempre pensato di aver sbagliato tutto. Oggi so che non sono io ad essere “difficile” ma sono le persone che si sono allontanate da me, che non avevano il cuore abbastanza grande da contenere l’universo che ho dentro; che non avevano la coerenza necessaria per rimanere fedeli alle promesse che mi avevano fatto; ma soprattutto, che non avevano la speranza né il coraggio di lottare per il mondo che io ancora credo possibile.

Eh si, io non sono “difficile da amare” ma di certo, non è facile amarmi come io mi merito.

 

 

 

 

 

 

 

 

Una seconda possibilità

Uno dei miei scrittori preferiti una volta ha detto che gli esseri umani non nascono solo una volta ma che la vita li costringe più volte a partorirsi da sé.

Ed è così che mi sento: non rinata ma proprio ri-partorita, appena fuori da quel tunnel che credevo fosse la morte e invece era la vita.

E come se il cancro avesse ucciso quella parte di me che mi aveva fatta ammalare, la parte giudicante e per nulla compassionevole nei miei confronti, quella che amava troppo gli altri perché incapace di amare se stessa.

E così a distanza di pochi giorni dalla radio avevo smesso di esistere, una morte emotiva. Non sentivo più nulla, né gioia né dolore. E per mesi ho vissuto con il pilota automatico inserito: sveglia presto, lavarsi, cucinare, andare in palestra, fare terapia, lavorare ma tutto senza esserci davvero. Osservavo le mie giornate come una spettatrice esterna e mi chiedevo se il limbo in cui ero caduta avesse una via d’uscita.

E poi piano piano ho ricominciato a essere e a sentire, ma senza quelle tendenze tossiche che mi hanno avvelenata per quasi tutta la mia esistenza. Sono tornata una vergine delle emozioni, con il contatore del cuore azzerato.

È  stato difficile orientarsi nel caos del mio nuovo universo interiore e ancora adesso mi muovo a tentativi, gattonando e cercando l’equilibrio per potermi alzare in piedi. È  una nuova sfida, finalmente!

Guardo me stessa e gli altri con occhi nuovi, pieni di stupore per le cose e le persone meravigliose che mi circondano. Mi sorprendo di come la vita si faccia strada nei modi più impensabili, anche attraverso la morte e mi sento grata di aver avuto una seconda possibilità…

…mi sento grata di aver avuto il cancro.

 

Io sono un’eroina

Le persone che non provano empatia sanno – intuiscono più che altro – che c’è qualcosa in loro che non è  al posto giusto. Queste persone sono costrette a fingere di provare tristezza o indignazione quando in realtà non provano niente. È  faticoso. Passano metà del loro tempo a odiare chi invece sente e sente anche tanto.

E così un giorno iniziano a denigrare. Per non sentirsi in difetto cercano di sminuire l’altro. Chi è  empatico viene quindi etichettato come troppo sensibile, esagerato, polemico.

Se poi si tratta di una donna..  “è  isterica, ha le mestruazioni, non scopa da tanto tempo”, e chi più ne ha più ne metta.

Poi ci sono i subdoli.. Quelli che per sentirsi a posto con la loro coscienza fingono di preoccuparsi, raccontando in giro che lei “è  troppo fragile, dopo quello che ha passato poverina, è  troppo sensibile, traumatizzata, ferita..”

Beh.. Caro amico, se tu sentissi la metà di quello che provo io ti saresti già  tolto la vita da un pezzo. Immagina il dolore che proveresti perdendo la persona che ami di più al mondo, e ora immagina di perderla ogni giorno, per ogni volta che qualcuno viene ucciso, stuprato, abbandonato. Ecco come mi sento io. Da sempre. Da quando ho memoria di me.

E invece di suicidarmi mi alzo dal letto tutti i giorni, mi lavo, mi preparo da mangiare, lavoro, mi curo.

E in questi anni ho studiato dedicando tutta la mia vita a cambiare del mondo ciò  che mi fa male, mi sono laureata tre volte, ho girato il mondo lavorando con i bambini ovunque ci sia un’emergenza, sono guarita dal cancro solo per continuare a farlo.

Non osare mai più definirmi fragile o ipersensibile per giustificare il tuo silenzio davanti all’orrore.

Io sono un’eroina e il mio super potere è  proprio la mia empatia.

 


Las personas que no sienten empatía saben – sienten más que nada – que hay algo en ellos que no está en el lugar correcto. Estas personas se ven obligadas a fingir estar tristes o indignadas cuando en realidad no sienten nada. Y esto es agotador. Pasan la mitad de su tiempo odiando a aquellos que sienten tanto.

Y así, un día comienzan a denigrar. Para no sentirse culpables tratan de menospreciar a las otras personas. Aquellas que son empáticas son etiquetadas como demasiado sensibles, exageradas, beligerantes.

Además, si se trata de una mujer, ella “es histérica, tiene menstruación o no ha follado durante mucho tiempo”.

Luego están los hipócritas… Aquellos que, para sentirse cómodos con su conciencia, fingen estar preocupados, diciendo que “ella es demasiado frágil, después de lo que ha pasado, es demasiado sensible, traumatizada, herida …”

Bueno… querido amigo, si hubieras sentido la mitad de lo que siento, te habrías quitado la vida desde hace un tiempo ya. Imagina el dolor que experimentarías al perder a la persona que amas más en todo el mundo, y ahora imagina perderla todos los días, cada vez que alguien es asesinado, violado, abandonado. Así es como me siento. Siempre. Desde que tengo memoria de mi.

Y en lugar de suicidarme, me levanto todos los días, me lavo, me alimento, trabajo, me cuido.

Y en estos años he estudiado, dedicando toda mi vida a cambiar en el mundo lo que me duele; me gradué tres veces, viajé por todas partes, trabajando con niños donde haya una emergencia y me recuperé de un cáncer solo para seguir haciéndolo.

Nunca te atrevas a llamarme frágil o hipersensible otra vez para justificar tu silencio frente al horror.

No soy frágil. Soy una heroína y mi superpoder es justo mi empatía.

Mi merito tutto

Non dimenticherò mai il 31 maggio 2017. Quel giorno ho avuto il coraggio di credere che mi merito il massimo dalla vita, chiudendo alle mie spalle la gabbia che mi teneva prigioniera da due anni. E quell’azione coraggiosa è stata una causa enorme nella mia vita, una causa che mi ha regalato tantissimi effetti. Il primo è stato un bacio quella sera stessa: il tuo, interrotto da un ragazzo che vendeva rose. In quel momento tu mi hai guardato con dolcezza e hai detto “le prendo tutte!”. L’ambiente è solo uno specchio di ciò che abbiamo nel cuore e quella sera la risposta del mio ambiente è stata “ti meriti tutto!”.

 

Decalogo delle frasi tipiche che ho deciso di non dire assolutamente quando qualcuno sta male:

  1. Decidi.
  2. Forse non hai deciso profondamente.
  3. Recita e tutto andrà bene.
  4. Non lamentarti.
  5. Non hai una forte fede.
  6. Non hai messo Kosen Rufu al centro della tua vita.
  7. E’ il tuo karma (quando qualcuno mi rimprovera di qualcosa).
Ognuna di queste frasi, esplicitamente o implicitamente, dà un giudizio sull’altra persona, sul suo comportamento o sulla sua fede.
1. e 2. significano “non hai deciso”.
3. Non stai recitando, o non stai recitando bene.
4. Ti stai lamentando.
5. e 6. chiarissime, già così come sono.
7. emerita stronzata per deresponsabilizzarsi.
Ecco, forse queste frasi le avrò dette anche io in passato, non lo so e non ricordo. Ma oggi quando qualcuno sta male, ascolto. Ascolto. Poi ancora Ascolto. Dopo -forse – parlo: o racconto una mia esperienza che può essere simile, oppure leggo Sensei o Nichiren.
Essere responsabili non significa avere le risposte, o poter giudicare la fede e la pratica degli altri. Essere responsabili significa solo decidere di includere la felicità di tutti nella propria e di conseguenza sostenere gli altri, senza giudicarli, con un ascolto attivo e cercando le risposte insieme a loro, fra le parole dei nostri maestri.

Tutta una vita in un sogno

Antonio e Maria si sono conosciuti fra i banchi di scuola. Al liceo, Antonio era molto timido e non riusciva a chiedere a Maria di uscire. Maria lo guardava tutti i giorni con quegli occhioni innamorati ma lui non riusciva a prendere coraggio. Finché lei si decise e un giorno, dopo mesi di sguardi ammiccanti, si avvicinò a lui e gli disse: “Allora ti decidi? o devo dare una possibilità a quel pesantone del tuo compagno di banco?”. Lui rimase fisso immobile e diventò tutto rosso, lei fece per andarsene e allora lui con uno scatto veloce la prese per un braccio, si avvicinò alla sua faccia che odorava di rose e le schiocco un bacino veloce sulla guancia. Lei fece una risatina e disse: “Lo prendo per un si. Domani sera alle sette vieni a casa mia e chiedi a mio padre se posso uscire con te, indossa una cravatta e metti la colonia perché a mia madre non piacciono i ragazzi che non profumano.”

Era il 1967. E da allora Antonio e Maria non si separarono mai. Finito il liceo si sposarono ed ebbero quattro figli, due maschi e due femmine. Viaggiarono molto ed ebbero una vita piena di piccole e grandi vittorie. Tante gioie e tante risate ma anche tante lotte, come quando Maria dovette combattere contro un tumore all’età di 46 anni.

Per due anni non seppero se stavano per separarsi per sempre oppure no, ma non mollarono mai la presa. Quando Maria stava troppo male per alzarsi dal letto, Antonio le faceva compagnia tutto il giorno, leggendo per lei, raccontandole le novità del quartiere o semplicemente accarezzandola mentre dormiva. Ogni tanto i figli si proponevano di dargli il cambio. Un giorno Teresa, la figlia più grande gli disse: “Papà, perché non esci un po’, vai al bar dai tuoi amici e ti fai una bella partita a carte per svagarti, ci sto io con la mamma.” Lui le sorrise e le rispose: “Grazie Teresa, ma l’unico svago che voglio è tua madre. Ogni momento che passo con lei è prezioso più di un gioiello e non me ne perderò nemmeno uno finché avrò aria nei polmoni. Avrò tempo per giocare quando tua madre starà meglio e non mi vorrà più fra i piedi, per spettegolare con le vicine.”

Finalmente dopo qualche mese Maria cominciò a stare meglio ed effettivamente quando riprese a invitare le amiche a casa, Antonio tornò al bar e alle sue carte. Questa fu una delle tante sfide che la vita presentò loro. Nel corso degli anni vissuti assieme non si lasciarono mai. Finché non arrivò l’ultima sfida, quella che li avrebbe separati per davvero.

Una mattina Antonio andò a pagare le bollette alla posta e non ritornò più. All’inizio Maria si arrabbiò pensando che si fosse fermato al bar a giocare a carte, senza avvisare che avrebbe fatto tardi. Quando all’ora di pranzo non si presentò, lei si mise la giacca e andò al bar per prenderlo per le orecchie come aveva fatto tante altre volte. Appena arrivata capì subito che c’era qualcosa che non andava: il bar era vuoto, nessuno stava giocando. Ma allora Antonio dov’era?

Allarmata chiamò subito Francesco, il figlio maggiore. Lui la rassicurò dicendole che lo avrebbe cercato con la macchina in tutti i posti dov’era solito andare, e che avrebbe chiesto aiuto ai suoi fratelli e ai suoi amici. Quando alle otto di sera ancora nessuno aveva notizie, chiamarono i carabinieri. Dopo solo due ore, due carabinieri si presentarono a casa loro con Antonio. Si era perso e lo avevano trovato al parco in uno stato confusionale. Maria lo abbracciò forte e lui le disse solo “scusami” e poi scoppiò a piangere. Lei lo accarezzò e gli rispose che era tutto apposto, lo accompagnò in camera e lo mise a letto. Per farlo addormentare cominciò a cantargli la loro canzone d’amore e lui le sorrise.

Il giorno dopo Maria lo accompagnò in ospedale. Il dottore gli confermò subito i suoi sospetti: Antonio aveva l’alzheimer. Da quel giorno iniziarono gli anni più difficili della loro vita. Vivevano ogni momento con il terrore che fosse l’ultimo che Antonio potesse ricordare. Erano gelosi di ogni singolo istante passato insieme e si guardavano come in quella classe del lontano 1969. Finché un giorno Antonio non ricambiò quello sguardo e le chiese: “tu che ci fai in casa mia?”. Maria sentì le ginocchia cedere sotto il peso di quelle parole e capì che era arrivato il momento che tanto temeva: l’amore della sua vita non si ricordava più di lei, o meglio non la riconosceva e le chiedeva dove fosse la sua Maria.

Da allora Maria si prende cura di lui. Dopo i primi tempi in cui cercò di fargli capire che era lei Maria e che erano invecchiati insieme, si arrese al fatto che lui non riusciva ad elaborare quella nuova informazione e smise semplicemente di provarci. Iniziò a parlarli seguendo la sua logica, entrando nel suo mondo, quello in cui lui parla della sua amata e la cerca, e lei lo ascolta in silenzio, nascondendo il dolore.

Quando qualcuno le chiede il perché lei rimanga al suo fianco, aggiungendo che forse sarebbe più facile per lei portarlo in un istituto che si occupa di questi casi, lei risponde così: “Lui non mi lascerebbe mai sola, anche se non potesse raggiungermi. Finché vivrò gli darò il mio amore, anche se non avrò più il suo in cambio. In una piccola parte del suo cuore sicuramente lui sentirà che la sua Maria è accanto a lui, e questo mi basta.”

Antonio non vuole dormire con un’estranea. Lui vuole la sua Maria e si addormenta grazie ai sonniferi, pronunciando il suo nome. Maria piange ogni notte, abbracciando il cuscino, fingendo che sia lui e ricordando quando era bello addormentarsi fra le sue braccia. La mattina si alza e gli prepara la sua colazione preferita e quando lui la ringrazia e le dice che la sua Maria gliela prepara sempre, lei gli risponde: “infatti questa l’ha preparata lei, solo che è dovuta scappare a lavoro e mi ha chiesto di fare in modo che la mangi tutta” e allora lui la mangia, con un grande sorriso stampato sul volto. E Maria si alza ancora la mattina solo per quel sorriso.

E che niente sia…

Voglio qualcuno che mi aspetti ansioso al binario del treno. Qualcuno che mi guardi sognante mentre mi vesto, dopo aver fatto l’amore.

Qualcuno che adori i miei baci. Che non veda l’ora di andare a letto per abbracciare il cuscino pensando a me.

Voglio essere chiamata “Amore”. Voglio poter chiamare “Amore”.

Voglio foto stupide e picnic improvvisati. Danze sotto la pioggia e corse sulla spiaggia.

Voglio qualcuno da scegliere ogni giorno e da cui essere scelta.. sempre.

Voglio una persona che mi metta al centro dei suoi progetti futuri, che guardi in avanti, includendomi. Che voglia condividere ogni vittoria e ogni sconfitta.

Voglio nomi di bambini scritti su pezzi di carta sparsi per casa e alberi da piantare insieme, nel giardino.

Voglio vacanza esotiche e vacanze noiose a casa delle rispettive famiglie. Voglio una suocera che mi rompa le scatole e un suocero che mi accolga come una figlia.

Voglio nuove sorelle e nuovi fratelli. Cugini e zii che ancora non ho mai conosciuto.

Voglio qualcuno che mi ami e abbia il coraggio di donarsi.

Voglio una persona capace di ritrovarmi nel suo cuore ogni volta, cercandomi con la solitudine e con il coraggio di non drogarsi di gente per anestetizzarsi dalla mia mancanza.

Voglio tutto.

O niente.

Quindi..

..che niente sia.

Chissà come sarebbe..

Chissà come sarebbe la mia vita se riuscissi sempre a vedere gli errori miei e degli altri attraverso l’ottica buddista, secondo la quale ogni veleno si può trasformare in medicina. Con quanta leggerezza vivrei riuscendo ad avere in ogni istante la lucidità di questo momento, quella consapevolezza che mi riempie di gioia perché mi fa sentire che tutto ha un senso. Tutto tutto.

Come sarebbero le miei giornate se riuscissi a ricordare questo attimo di chiarezza, in cui vedo perfettamente come ogni sofferenza mi sia servita ad arrivare fino a qui?  Sentendo, come lo sento adesso, che non avrei mai potuto capire chi soffre senza attraversare la sua stessa sofferenza. Provando una gratitudine profonda e vera verso chi mi ha ferito e addirittura, sentendo che proprio quella persona è il mio più caro “buon amico”. Questo istante di vita in cui c’è davvero spazio per ognuno nel mio cuore, perché tutti sono utili alla mia crescita. Tutti tutti.

Ma so già che questo momento di illuminazione svanirà presto, risucchiato dalla routine e dalle nuove sfide di ogni giorno. So già che la prossima volta in cui quella persona farà nuovamente qualcosa che mi ferirà, scorderò tutto e dovrò ricominciare daccapo. E allora, lo scrivo. Lascio alla mia me stessa del futuro un post, uno spunto di riflessione a cui aggrapparsi quando, per l’ennesima volta, penserà di strangolare il suo ex a mani nude o di fare un gestaccio a chi la tratta male.

Eli ricorda! Siamo tutti Buddha meravigliosi. Tutti tutti.

(Anche se qualche volta non sembra!)