Una vez al mes, como la regla

 

Dos días al mes. Por lo general no más de dos, pero a veces incluso cuatro son los días en que me limpio los ojos y el corazón, llorando todo lo que no puedo llorar durante el resto del tiempo. Siempre ocurre con cierta regularidad, como por la regla o las fases lunares. Necesito hacerlo. Es como si por cada noticia, imagen, recuerdo del sufrimiento del mundo se formara un pequeño nudo dentro de la garganta, que crece un poco más cada día hasta que llega el momento en que tengo que vomitarlo, gritando y llorando. Siempre ha sido así, desde el primer momento que tengo recuerdos de mí. Solo que pronto aprendí que la empatía, la sensibilidad eran algo de lo que avergonzarse, como la menstruación. Y así, durante años me consideré frágil, una débil, me daba vergüenza sentir tanto el dolor de los demás hasta hacerlo mío. Y por eso también me enfermé.

Hoy, sin embargo, cuando llega el momento en que tengo que limpiar el alma del dolor, lo acojo como parte de la vida, como una forma de honrar a los seres vivos que han sufrido o muerto. Y es también mi forma de pedir perdón, por no haber encontrado aún la forma más efectiva de crear el mundo que quería para ellos.

 


Due giorni al mese. Di solito non più di due ma certe volte anche quattro sono i giorni in cui mi pulisco gli occhi e il cuore, piangendo tutto quello che non posso piangere durante il resto del tempo. Avviene sempre con una certa regolarità, come per il ciclo o le fasi lunari. Ho bisogno di farlo. E’ come se ad ogni notizia, immagine, ricordo della sofferenza del mondo si formasse un piccolo nodo dentro la gola, che cresce ogni giorno un po’ di più finchè arriva il momento in cui lo devo vomitare fuori, gridando e piangendo. E’ così da sempre, dal primo momento in cui ho memoria di me. Solo che presto ho imparato che l’empatia, la sensibilità sono qualcosa di cui vergognarsi, come delle mestruazioni del resto. E così per anni mi sono considerata fragile, una debole, mi sono vergognata di sentire così tanto il dolore degli altri da farlo mio. E mi sono ammalata anche per questo. 

Oggi, invece, quando arriva il momento in cui devo ripulire l’anima dal dolore,  lo accolgo come parte della vita, come un modo per onorare gli esseri viventi che hanno sofferto o sono morti. E anche il mio modo per chiedere perdono, per non avere ancora trovato il modo più efficace per creare il mondo che avrei voluto per loro. 

Pacchia

Screenshot_20181225-173128_1.jpgCredo che in alcune circostanze sia facile capire se una persona ha una coscienza o non ce l’ha; proprio come sarebbe facile capire l’enorme differenza che c’è  fra una persona che soffre di fronte allo sgomento di questa donna e un’altra che continua ad utilizzare il termine “pacchia” per definire l’incubo che questa foto racconta.

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Quel cammino tra l’inizio e la fine. Di nuovo.

Non mi piacciono gli addii, i finali e i “vissero felici e contenti”. Non amo neanche i nuovi inizi, i cambiamenti o le grandi rivoluzioni.

Mi piace cosa sta in mezzo. Il cammino tra l’inizio e la fine. Adoro la quotidianità, la routine. Il sentirmi a casa. Mi interessa più il processo che il risultato.

Ho sempre fatto il salto quando era necessario buttarsi. Spicco il volo ogni volta che serve ma non vedo l’ora di atterrare e tenere di nuovo i piedi ben piantati per terra. Le trasformazioni mi spaventano. Mi terrorizza quello che non conosco. Eppure non mi sono mai tirata indietro.

In trentun anni ho vissuto in otto città, in quattro nazioni di tre continenti diversi. Ho fatto dieci traslochi. Ho cambiato facoltà due volte. Lavoro otto. Ho avuto diversi fidanzati e fidanzate. Ho convissuto per sei anni e ho scampato il matrimonio per un pelo. Mi sono buttata con il paracadute da quindici mila piedi e sono rotolata da una collina, dentro una palla di gomma. Ho visitato quasi venti paesi e ho assaggiato ventitré tipi di cucina diversi. Sono stata cristiana per quattordici anni, agnostica per dieci e sono buddista da sette. Ho imparato tre lingue diverse dalla mia e ho iniziato a studiare canto e chitarra a trentun anni.

Ho fatto e cambiato così tante cose che mi sembra di aver vissuto mille vite. Chi mi conosce non può credere che io abbia paura dell’ignoto; che anche io abbia difficoltà a lasciare la mia zona di comfort. Eppure è proprio così. Ma allora perché sono riuscita a fare tutto quello che ho fatto? Perché ho abbandonato le mie certezze e sono riuscita a vincere la paura di perdere tutto? La paura di sbagliare, di cambiare, di stare da sola?

La verità è che ho avuto un unico vantaggio nella mia vita. Un unico espediente che mi ha portato ad uscire dal guscio protettivo dell’abitudine e della familiarità: la sofferenza.

Si, è stata la grande sofferenza che ho provato fin da piccola a spingermi alla ricerca continua di me stessa. Il vuoto che ho nel petto da quando ho memoria di me è stato il motore più potente della mia rivoluzione umana e lo è tutt’ora.

La depressione di cui ho sofferto in adolescenza è stata la mia via d’uscita da un percorso già scritto per me, dalla società in cui ero cresciuta: un diploma, forse una laurea – giusto per poterla sfoggiare con i compaesani – e certamente un lavoro vicino casa fino al matrimonio con il primo amore, coronato da una o più gravidanze. Questo era il futuro che mi aspettavo. Che tutti si aspettavano da me. Il futuro che credevo di volere. Ma la vita aveva altro in serbo per me.

Solo che è difficile abbandonare le aspettative, i sogni da bambina e tutto ciò che ci è familiare. E’ dura percorrere strade non asfaltate, spesso piene di dossi e pericoli. Scegliere il cammino più difficile non è semplice. Allora, proprio come una madre compassionevole sgrida il figlio quando sbaglia, la vita mi ha dato una bella spinta. Una nuova partenza, azzerando tutto. Si perché come dice una mia cara amica, la depressione è uno zero dell’anima. O di sicuro lo è stato per me.

Da quello zero ho ricostruito tutto. Ho ricostruito me stessa, i miei sogni e il mio cammino. E per farlo ho dovuto fare il mio primo salto nel vuoto, nel mio personale buco nero. Il primo viaggio è stato il più importante: quello alla ricerca di me stessa, per guardarmi dentro e guardare in faccia il mio dolore.

Vorrei poter dire che da allora il cammino è stato in discesa, ma non è così. Ad ogni nuova partenza o sfida che mi si presenti, la paura torna sempre. Il disagio, la mancanza di equilibrio sono i miei primi compagni di viaggio. E quando la resistenza al cambiamento è troppo forte, la vita torna con i suoi scossoni compassionevoli.

E’ una lotta. Eterna. E decisamente impegnativa. Ma realizzabile. E con tempi di ripresa sempre più rapidi, con soddisfazioni sempre più grandi e passi sempre più lunghi. Adesso, ogni volta che si presenta una novità o un ostacolo che mi costringe ad uscire dal mio guscio sicuro, l’accolgo come l’ennesima opportunità che la vita mi sta dando per aprirmi al mondo, per migliorarmi e superare i miei limiti.

E infatti miglioro, supero i limiti e allargo la zona di comfort. Affronto tutto con coraggio e poi torno a casa, a godermi ciò che sta tra la fine di un’avventura e l’inizio della successiva: un buon libro sul divano e una tazza di cioccolata!


Da quando ho scritto questo post (27 novembre 2016) sono passati quasi due anni, un’incredibile esperienza nei campi profughi in Libano, tre relazioni, un cancro, due operazioni, la radio e tantissimo lavoro sia professionale che interiore. Eppure ancora una volta mi trovo a dover ricominciare tutto da capo: affrontare di nuovo la malattia, in un’altra città di un altro Paese, con un lavoro diverso e senza la persona che in teoria era il mio compagno.

Di nuovo la lotta, di nuovo la paura. E se anche una parte di me sa che vincerò – come sempre-, il più grande sforzo consiste nel cercare di ignorare quella vocina che striscia come un serpente fra i pensieri e le cose da fare, sussurrando “questa volta non ce la farai!”. E allora rileggo di tutte le volte che ho combattuto per la mia felicità, con le unghie e con i denti, anche quando non ci credevo, anche quando ero stesa su un letto paralizzata dal dolore, anche quando credevo di aver perso l’amore o peggio quando credevo di non meritarlo. E così scopro che questo blog non serve per condividere le mie lotte con gli altri, per incoraggiare le mie amiche o per farle ridere. Non solo. Serve soprattutto a me stessa. Un inno alla forza, per ricordarmi chi sono.

Io sono una vincitrice.

E anche questa volta prenderò questa sofferenza e ne farò un capolavoro.

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No me gustan las despedidas, los finales y “vivieron felices para siempre”. Ni siquiera me gustan los nuevos comienzos, los cambios o las grandes revoluciones. Me gusta lo que está en medio. El camino entre el principio y el final. Amo la vida cotidiana, la rutina. Sentirse como en casa. Estoy más interesada en el proceso que en el resultado. Siempre he saltado cuando era necesario saltar. Me echo a volar cuando es necesario, pero no puedo esperar para aterrizar y mantener mis pies firmemente plantados en el suelo nuevamente. Las transformaciones me asustan. Me asusta lo que no sé. Sin embargo, nunca me eché atrás. En treinta y cuatro años viví en nueve ciudades, en cinco países de cuatro continentes diferentes. Hice trece mudanzas. He cambiado el curso de mis estudios de universidad dos veces. 10 veces el trabajo. Tuve varios novios y novias. Viví con una pareja durante seis años y me escapé por un pelo de la boda. Me lancé con el paracaídas desde quince mil pies y rodé desde una colina dentro una pelota de goma. Visité más de veinte países y probé veintitrés tipos diferentes de cocina. Fui cristiana por catorce años, agnóstica por nueve y soy budista desde diez. Aprendí tres idiomas más y comencé a estudiar canto y guitarra a los treinta años. He hecho y cambiado tantas cosas que siento que he vivido mil vidas. Los que me conocen no pueden creer que tengo miedo de lo desconocido; Que también me cuesta salir de mi zona de confort. Y, sin embargo, es realmente así. Pero entonces, ¿por qué he logrado hacer todo lo que hice? ¿Por qué abandoné mis certezas y logré superar el miedo a perder todo? ¿El miedo a cometer errores, a cambiar, a estar sola? La verdad es que tenía una ventaja en mi vida. Un solo recurso que me llevó a salir de la cáscara protectora del hábito y la familiaridad: el dolor. Sí, fue el gran sufrimiento que sentí de niña que me llevó a esforzarme en una búsqueda continua de mí misma. El vacío en mi pecho que siento desde que tengo memoria de mí, fue el motor más poderoso de mi revolución humana y todavía lo es. La depresión que sufrí en la adolescencia fue la salida de un camino que estaba ya escrito para mí por la sociedad en la que crecí: un diploma, tal vez un título universitario, solo para mostrarlo con los demás ciudadanos, y ciertamente un trabajo cerca de casa hasta el matrimonio con el primer amor, coronado con uno o más embarazos. Este era el futuro que esperaba. Que todos esperaban de mí. El futuro que pensaba querer. Pero la vida tenía algo más reservado para mí. Solo que es difícil abandonar las expectativas, los sueños de niño y todo lo que es familiar. Es difícil recorrer caminos no asfaltados, a menudo llenos de baches y peligros. Elegir el camino más difícil no es fácil. Entonces, al igual que una madre compasiva regaña a su hijo cuando comete un error, la vida me dio un buen impulso. Un nuevo comienzo, poniendo a cero todo. Sí, porque como dice una querida amiga mía, la depresión es un cero del alma. O seguro que eso fue para mí. A partir de ese cero lo reconstruí todo. Reconstruí mi identidad, mis sueños y mi camino. Y para hacer esto tuve que dar mi primer salto al vacío, a mi agujero negro personal. El primer viaje fue el más importante: aquello en busca de mí misma, para mirar hacia adentro y enfrentar mi dolor. Me gustaría decir que desde entonces el viaje ha sido cuesta abajo, pero no es así. A cada nueva partida o desafío que se me presenta, el miedo siempre regresa. La incomodidad, la falta de equilibrio son mis primeras compañeras de viaje. Y cuando la resistencia al cambio es demasiado fuerte, la vida regresa con sus sacudidas compasivas, y me trae otros desafíos come el cáncer: mi gran maestro. Es una lucha. Eterna. Y definitivamente desafiante. Pero alcanzable. Y con tiempos de recuperación cada vez más rápidos, con satisfacciones cada vez mayores y pasos cada vez más largos. Ahora, cada vez que hay algo nuevo o un obstáculo que me obliga a abandonar mi cáscara segura, le doy la bienvenida como otra oportunidad que la vida me brinda para abrirme al mundo, para superarme y superar mis límites. Y de hecho mejoro, supero los límites y amplío la zona de confort. Me enfrento a todo con coraje y luego me voy a casa, para disfrutar de lo que hay entre el final de una aventura y el comienzo de la siguiente: ¡un buen libro tumbada en el sofá y una taza de chocolate!

Come le doglie

C’è una solitudine che non riesce a stare sola e ti porta in giro a cercare cose da fare e gente da vedere. Una solitudine che si nasconde dietro impegni importanti e scadenze da rispettare. Una solitudine che non parla e che non si ascolta, che fugge da se stessa perché non si accetta. Che preferisce accontentarsi di poco, piuttosto che viversi. Una solitudine codarda, che strappa le radici per paura della fatica che comporta prendersene cura.

E poi c’è una solitudine rumorosa, che non ti lascia dormire la notte e di giorno ti distoglie dal qui e ora, parlandoti del passato. Una solitudine che grida per essere accolta e accettata. Una solitudine che leviga e imbellisce l’animo perché non si accontenta e non elemosina, non si sfinisce in una corsa contro il tempo per non pensare. È una solitudine amica, che svuota per lasciare spazio, che scava dentro per piantare nuovi semi.

Io le ho vissute entrambe nella mia vita e ho imparato a diffidare dell’una e a immergermi nell’altra. È un processo doloroso ma necessario, come le doglie per una donna gravida.

Se la vita stessa viene fuori grazie alla sofferenza, come si può crescere evitando il dolore?


Hay una soledad que no puede estar sola y te lleva a buscar cosas que hacer y personas que ver. Una soledad que se esconde detrás de importantes compromisos y plazos que hay que respetar. Una soledad que no habla y que no se escucha, que se escapa de sí misma porque no se acepta. Que prefiere conformarse con poco, en lugar de vivir. Una soledad cobarde, que arraiga por temor al esfuerzo que supone cuidarla.

Y luego hay una soledad ruidosa, que no te deja dormir por la noche y durante el día te distrae del aquí y ahora, hablándote del pasado. Una soledad que clama ser aceptada y acogida. Una soledad que suaviza y embellece el alma porque no está satisfecha y no ruega, no se agota en una carrera contra el tiempo para no pensar. Es una soledad amigable, que vacía para dejar espacio, que cava para plantar nuevas semillas.

Yo viví las dos en mi vida y aprendí a desconfiar de una y sumergirme en la otra. Es un proceso doloroso pero necesario, como los dolores del parto de una mujer embarazada.
Si la vida misma surge del sufrimiento, ¿cómo podemos crecer evitando el dolor?

Quel cammino tra l’inizio e la fine.

Non mi piacciono gli addii, i finali e i “vissero felici e contenti”. Non amo neanche i nuovi inizi, i cambiamenti o le grandi rivoluzioni.

Mi piace cosa sta in mezzo. Il cammino tra l’inizio e la fine. Adoro la quotidianità, la routine. Il sentirmi a casa. Mi interessa più il processo che il risultato.

Ho sempre fatto il salto quando era necessario buttarsi. Spicco il volo ogni volta che serve ma non vedo l’ora di atterrare e tenere di nuovo i piedi ben piantati per terra. Le trasformazioni mi spaventano. Mi terrorizza quello che non conosco. Eppure non mi sono mai tirata indietro.

In trentun anni ho vissuto in otto città, in quattro nazioni di tre continenti diversi. Ho fatto dieci traslochi. Ho cambiato facoltà due volte. Lavoro otto. Ho avuto diversi fidanzati e fidanzate. Ho convissuto per sei anni e ho scampato il matrimonio per un pelo. Mi sono buttata con il paracadute da quindici mila piedi e sono rotolata da una collina, dentro una palla di gomma. Ho visitato quasi venti paesi e ho assaggiato ventitré tipi di cucina diversi. Sono stata cristiana per quattordici anni, agnostica per dieci e sono buddista da sette. Ho imparato tre lingue diverse dalla mia e ho iniziato a studiare canto e chitarra a trentun anni.

Ho fatto e cambiato così tante cose che mi sembra di aver vissuto mille vite. Chi mi conosce non può credere che io abbia paura dell’ignoto; che anche io abbia difficoltà a lasciare la mia zona di comfort. Eppure è proprio così. Ma allora perché sono riuscita a fare tutto quello che ho fatto? Perché ho abbandonato le mie certezze e sono riuscita a vincere la paura di perdere tutto? La paura di sbagliare, di cambiare, di stare da sola?

La verità è che ho avuto un unico vantaggio nella mia vita. Un unico espediente che mi ha portato ad uscire dal guscio protettivo dell’abitudine e della familiarità: la sofferenza.

Si, è stata la grande sofferenza che ho provato fin da piccola a spingermi alla ricerca continua di me stessa. Il vuoto che ho nel petto da quando ho memoria di me è stato il motore più potente della mia rivoluzione umana e lo è tutt’ora.

La depressione di cui ho sofferto in adolescenza è stata la mia via d’uscita da un percorso già scritto per me, dalla società in cui ero cresciuta: un diploma, forse una laurea – giusto per poterla sfoggiare con i compaesani – e certamente un lavoro vicino casa fino al matrimonio con il primo amore, coronato da una o più gravidanze. Questo era il futuro che mi aspettavo. Che tutti si aspettavano da me. Il futuro che credevo di volere. Ma la vita aveva altro in serbo per me.

Solo che è difficile abbandonare le aspettative, i sogni da bambina e tutto ciò che ci è familiare. E’ dura percorrere strade non asfaltate, spesso piene di dossi e pericoli. Scegliere il cammino più difficile non è semplice. Allora, proprio come una madre compassionevole sgrida il figlio quando sbaglia, la vita mi ha dato una bella spinta. Una nuova partenza, azzerando tutto. Si perché come dice una mia cara amica, la depressione è uno zero dell’anima. O di sicuro lo è stato per me.

Da quello zero ho ricostruito tutto. Ho ricostruito me stessa, i miei sogni e il mio cammino. E per farlo ho dovuto fare il mio primo salto nel vuoto, nel mio personale buco nero. Il primo viaggio è stato il più importante: quello alla ricerca di me stessa, per guardarmi dentro e guardare in faccia il mio dolore.

Vorrei poter dire che da allora il cammino è stato in discesa, ma non è così. Ad ogni nuova partenza o sfida che mi si presenti, la paura torna sempre. Il disagio, la mancanza di equilibrio sono i miei primi compagni di viaggio. E quando la resistenza al cambiamento è troppo forte, la vita torna con i suoi scossoni compassionevoli.

E’ una lotta. Eterna. E decisamente impegnativa. Ma realizzabile. E con tempi di ripresa sempre più rapidi, con soddisfazioni sempre più grandi e passi sempre più lunghi. Adesso, ogni volta che si presenta una novità o un ostacolo che mi costringe ad uscire dal mio guscio sicuro, l’accolgo come l’ennesima opportunità che la vita mi sta dando per aprirmi al mondo, per migliorarmi e superare i miei limiti.

E infatti miglioro, supero i limiti e allargo la zona di comfort. Affronto tutto con coraggio e poi torno a casa, a godermi ciò che sta tra la fine di un’avventura e l’inizio della successiva: un buon libro sul divano e una tazza di cioccolata!

 

L’amore basta

Cosa ti spinge ad alzare la cornetta e chiamare una persona che ti ha ferito e che non senti da un anno? Cosa ti spinge a superare la paura del giudizio e del rifiuto? l’amore che provi per lei!

Non è forse l’amore per la tua famiglia e per te stessa che smuove tutte le cellule del tuo corpo per combattere una malattia mortale?

Cosa ti fa andare oltre il risentimento e la delusione per riaprire le porte del tuo cuore? solo l’amore che vorresti riavere nella tua vita!

Per cosa lotti, cercando di portare pace e giustizia?  Non è forse amore che provi per l’umanità?!

“L’amore muove il mondo”. Quante volte ho sentito questa frase in passato, e per quanti anni non ci ho mai creduto. Finché il daimoku non ha cominciato a ripulire il mio cuore dal fango della sofferenza. E per la prima volta in vita mia ho sentito un amore senza tempo e senza spazio. Ho provato il desiderio della felicità degli altri, una felicità che non deve per forza coincidere con la mia. Un amore libero da ciò che potrei ricevere in cambio.

E l’ho sentito per un uomo che non mi ricambiava; per le mie nipoti anche se lontane, in tutti i sensi; per i miei genitori a cui non perdonavo di non essere stati come li volevo; per mia sorella per la quale provavo una dipendenza affettiva; e per moltissime altre persone, fra cui il mio maestro che non ho nemmeno mai conosciuto.

Qualcuno canta “L’amore non mi basta”. Qualcuno lo pensa davvero.

Non io.

 

 

 

Il buddismo e le fragole

Cos’è cambiato nella mia vita da quando pratico?

Beh.. chi mi conosce da tanto tempo sa perfettamente che prima di cominciare a recitare Nam Myoho Renghe Kyo ero una persona molto diversa da oggi.

Prima di tutto sono sempre stata molto empatica. Purtroppo ero “malata di empatia”. Non riuscivo a gestirla, non riuscivo a incanalarla verso la creazione di valore. Nella maggior parte delle volte mi paralizzava. La sofferenza degli altri mi feriva e basta. Oggi non è più così. Grazie al daimoku quella sofferenza è diventata il mio motore. Quando arriva, mi metto davanti al Gohonzon e ridetermino di vincere nella vita per me e per gli altri. Inoltre, la mia empatia si fermava al sentire le sofferenze degli altri. Ma le gioie? Niente! Pur avendo avuto la fortuna di non essere mai stata una persona invidiosa, mi mancava qualcosa.. non riuscivo a gioire delle vittorie altrui. Oggi faccio mia la felicità degli altri. Ho moltiplicato in modo esponenziale le mie vittorie, includendo quelle degli altri nella mia.

Un altro cambiamento fondamentale è stata la gratitudine. Prima di cominciare questa meravigliosa pratica il mio soprannome sarebbe potuto tranquillamente essere “Miss Lamentela”. Ero un corvo nero, una vittima del mondo. L’unica che aveva veramente sofferto. Si è vero, ho sofferto.. ma mi aiutava in qualche modo lamentarmi in continuazione? No di certo! Ottenevo solo il risultato di appesantire gli altri. Oggi invece sono grata. Sono grata di vivere, di poter vedere il sole, di aver studiato, di avere degli amici.. di tutto. La gratitudine è l’antidoto alla lamentela. Vivere con gratitudine significa avere sempre un motivo per gioire anziché uno per lamentarsi.

Il terzo cambiamento è per me il più soddisfacente. Studio gestione creativa dei conflitti, disarmo interiore e tutta questa roba da “pacifisti” da quasi dieci anni ormai. Ho sempre creduto profondamente nella nonviolenza e in tutto ciò che ho studiato ma mai sono riuscita a metterlo in pratica come ora. Prima del buddismo erano dei principi bellissimi a cui aspirare. Ma nella concretezza volevo distruggere chi mi feriva. Oggi se qualcuno mi ferisce prima penso di volerlo morto o quantomeno sofferente (meglio se anche sanguinante). Ok.. ci sta.. ma capisco che è il momento di fare daimoku. Una volta che comincio a recitare Nam Myoho Renghe Kyo i miei pensieri si trasformano – il mio cuore si trasforma – e passo dal volere l’infelicità di quella persona a volere la mia felicità, che non coincide con la vendetta.. poi piano piano comincio a sentire la mia vita che si apre e che include la felicità degli altri e comincio a desiderare di non comportarmi mai come quella persona, desidero di avere sempre la saggezza e la compassione necessarie per riuscire a non fare del male agli altri. Infine dopo molto (molto molto molto) daimoku riesco anche a desiderare la felicità della persona che odiavo. Semplicemente perché sento profondamente, con tutto il mio essere e non solo con la mente, che la cattiveria non esiste, è solo sofferenza non accolta e se quella persona mi ha fatto del male, lo ha fatto a causa della sua infelicità e non a causa mia. E lo ha fatto nella sua vita.. non nella mia.

Basterebbero questi tre benefici invisibili della pratica a farmi continuare su questa strada per l’eternità ma in realtà i benefici che derivano dal Sutra del Loto sono infiniti. Davvero.

L’essere diventata una persona che non si arrende mai davanti all’impossibile. Vedere gli ostacoli come opportunità. Potersi prendere cura delle persone. Realizzare prove concrete…

Potrei continuare per altri 10 post ad elencare come la mia vita sia cambiata in meglio ma la verità è che sarebbe come spiegare che sapore ha una fragola, a qualcuno che non l’ha mai provata. Bisogna assaggiarla per conoscerne il sapore. Ecco, il buddismo è come la fragola più gustosa che abbia mai assaggiato.

Provare per credere!

Chiunque tu sia, se stai pensando di voler morire e stai leggendo questo post vuol dire che hai cercato su internet uno spiraglio, come ho fatto io tante volte in passato.

Ero solo una ragazzina quando tentai di suicidarmi. Conosco perfettamente il vuoto che senti dentro, il senso di soffocamento.. quel peso sul petto che sembra non andare mai via. So cosa significa sentirsi sola, esclusa, non meritevole di amore. So che sembra un incubo senza fine. Una strada interrotta senza via d’uscita.

Ma non è così. Ti prego scrivimi. Ti risponderò. Ti chiamerò. Ti sosterrò. Ti mostrerò che c’è una soluzione. Dammi un’opportunità. Datti un’opportunità. Non ti deluderò, te lo prometto.

Questa è la mia mail: elisabeth_peace@hotmail.com