“Sei troppo sensibile” mi ha detto, mentre piangevo e le spiegavo la sofferenza che provo ogni volta che un gommone si capovolge, ogni volta che ci sono dispersi in mare. “Sei troppo sensibile” mentre le spiegavo perché  per me è  così importante che almeno lei non sia d’accordo con la chiusura dei porti: “Tu lo sai che ci potrebbe essere il mio piccolo in mare, tu lo sai quanto ho sofferto quando è scomparso nel nulla.”. Lei lo sapeva. Ero tornata dall’Africa solo da otto mesi quando qualcuno se l’era portato via e lei c’era. Mi aveva detto anche che capiva il mio dolore, che “anche se non l’hai partorito, questo non lo rende meno tuo figlio”. Chi lo sa, forse se avessi avuto il tempo di adottarlo legalmente, oggi il mio dolore sarebbe più legittimo ai suoi occhi. Forse no. Non importa. Con quest’ultima tragedia non sono morte solo 100 persone, per me è  morta anche lei. E temo che ne moriranno anche altri.

Io ci proverò

Un giorno ti capiterà di essere troppo stanco o stanca per informarti, per resistere, per lottare, avrai paura per il futuro dei tuoi figli e vorrai soltanto trovare una soluzione, un senso, qualcuno da incolpare. E loro lo avevo previsto: ti avevano già  bombardato di notizie false, di frasi fatte e stereotipi.

E così, semplicemente, succederà: smetterai di vedere individui, persone con una coscienza propria, con un percorso e una storia che le rende uniche ma vedrai solo la loro etnia, il loro sesso, o la loro provenienza. E saranno tutti uguali, divisi per categoria.

La categorizzazione è il meccanismo che crea gli stereotipi su cui si formano i pregiudizi. Ed è utile per lo più, quando serve a formare scatole mentali in cui ordinare le migliaia di informazioni che arrivano al tuo cervello, a raffica, dal mondo esterno. Ma è anche la madre di tutti i razzismi, i sessismi e le fobie: una trappola mortale per la tua umanità, quando l’astrazione finalizzata a semplificarti il pensiero diventa l’unico modo di vedere il mondo, una macchina che produce giudizi basati solo su una visione stereotipata della realtà.

Quando questo succederà, comincerai a parlare con frasi che hai sentito mille volte, anche se non sai chi le ha dette per primo o quando. Selezionerai le notizie da leggere, in modo che rinforzino la tua opinione, e ad un certo punto utilizzerai i social network come fossero mezzi di informazione. Smetterai di chiamare le persone “persone” e inizierai a definirle sulla base del luogo d’origine o di chi si portano a letto. Avrai paura di loro anche se non ti hanno mai fatto nulla e persino se non le hai mai incontrate. E se per caso qualcuno di loro ti sorprenderà, sarà soltanto l’eccezione che conferma la regola. Starai ben attento o attenta nel sottolineare l’innocenza di donne e bambini, come se non fossero le loro madri e i loro figli, ed eviterai di usare il pronome “tutti”, optando per una più equa definizione: “la maggior parte”.

Sì, vedrai il mondo diviso in tante parti: quelle che rubano il lavoro, o peggio che rubano e basta; le parti che vogliono imporre la loro religione o la loro idea di famiglia; le parti che minacciano la tua virilità o il tuo ruolo sociale.

E arriverà il giorno i cui diventerà quasi impossibile farti cambiare idea, nemmeno con dati e fonti autorevoli alla mano o con il racconto di storie personali.

Sarà difficile farti vedere una risorsa dove vedi un’invasione, e la resilienza del naufrago al posto della disperazione. Farti scorgere la bellezza nella diversità o l’amore, dove vedi solo una perversione.

Sarà uno sforzo cercare di mostrarti a colori un mondo che ti ostini a dividere in bianco e nero. Ma io ci proverò lo stesso. E finché ci proverò, saprai che non ho smesso di avere fiducia in te. O nel mio Paese.

 

 

Il buddismo ci insegna che decidere è  il passo fondamentale nel percorso verso la nostra rivoluzione umana. Ma noi  non abbiamo potere di scelta su ciò che ci accade. La scelta riguarda però il modo in cui decidiamo di affrontarlo.

La scelta è ciò che rende prezioso ogni momento, che rende importante o meno una persona o un luogo: perché stare con lei e non con un’altra? perché scegliere di vivere in un posto piuttosto che un altro? Perché  l’abbiamo scelto!

Per questo è saggio non scegliere in balia delle emozioni (o degli ormoni!), e non prendere decisioni importanti con lo stato vitale basso o durante un momento critico.

Questo è lo scopo del daimoku: pulire la nostra mente e il nostro cuore dalle conseguenze delle azioni del passato, dalle cause negative, dal karma.

Il daimoku è come il tergicristallo che pulendo i vetri della macchina ci permette di vedere e quindi imboccare la strada giusta.

Per me è un mezzo per non perdermi nel caos del mio universo interiore appena ri-esploso.

Per questo ho deciso che non prenderò più decisioni importanti senza prima ripulire bene il mio parabrezza della vita, per poter avanzare. E anche il lunotto.. In caso di retromarcia!!

E se fossi tu

il riassunto di tutto ciò che mi hanno raccontato sull’amore?

O se invece

tu fossi quell’unica storia che non ho mai ascoltato?

Non so rispondere, ancora.

Non importa.

Oggi mi basta sapere che è il tuo, l’unico respiro che voglio sulla mia pelle.

 

 

 

 

 

 

 

Una seconda possibilità

Uno dei miei scrittori preferiti una volta ha detto che gli esseri umani non nascono solo una volta ma che la vita li costringe più volte a partorirsi da sé.

Ed è così che mi sento: non rinata ma proprio ri-partorita, appena fuori da quel tunnel che credevo fosse la morte e invece era la vita.

E come se il cancro avesse ucciso quella parte di me che mi aveva fatta ammalare, la parte giudicante e per nulla compassionevole nei miei confronti, quella che amava troppo gli altri perché incapace di amare se stessa.

E così a distanza di pochi giorni dalla radio avevo smesso di esistere, una morte emotiva. Non sentivo più nulla, né gioia né dolore. E per mesi ho vissuto con il pilota automatico inserito: sveglia presto, lavarsi, cucinare, andare in palestra, fare terapia, lavorare ma tutto senza esserci davvero. Osservavo le mie giornate come una spettatrice esterna e mi chiedevo se il limbo in cui ero caduta avesse una via d’uscita.

E poi piano piano ho ricominciato a essere e a sentire, ma senza quelle tendenze tossiche che mi hanno avvelenata per quasi tutta la mia esistenza. Sono tornata una vergine delle emozioni, con il contatore del cuore azzerato.

È  stato difficile orientarsi nel caos del mio nuovo universo interiore e ancora adesso mi muovo a tentativi, gattonando e cercando l’equilibrio per potermi alzare in piedi. È  una nuova sfida, finalmente!

Guardo me stessa e gli altri con occhi nuovi, pieni di stupore per le cose e le persone meravigliose che mi circondano. Mi sorprendo di come la vita si faccia strada nei modi più impensabili, anche attraverso la morte e mi sento grata di aver avuto una seconda possibilità…

…mi sento grata di aver avuto il cancro.

 

Io sono un’eroina

Le persone che non provano empatia sanno – intuiscono più che altro – che c’è qualcosa in loro che non è  al posto giusto. Queste persone sono costrette a fingere di provare tristezza o indignazione quando in realtà non provano niente. È  faticoso. Passano metà del loro tempo a odiare chi invece sente e sente anche tanto.

E così un giorno iniziano a denigrare. Per non sentirsi in difetto cercano di sminuire l’altro. Chi è  empatico viene quindi etichettato come troppo sensibile, esagerato, polemico.

Se poi si tratta di una donna..  “è  isterica, ha le mestruazioni, non scopa da tanto tempo”, e chi più ne ha più ne metta.

Poi ci sono i subdoli.. Quelli che per sentirsi a posto con la loro coscienza fingono di preoccuparsi, raccontando in giro che lei “è  troppo fragile, dopo quello che ha passato poverina, è  troppo sensibile, traumatizzata, ferita..”

Beh.. Caro amico, se tu sentissi la metà di quello che provo io ti saresti già  tolto la vita da un pezzo. Immagina il dolore che proveresti perdendo la persona che ami di più al mondo, e ora immagina di perderla ogni giorno, per ogni volta che qualcuno viene ucciso, stuprato, abbandonato. Ecco come mi sento io. Da sempre. Da quando ho memoria di me.

E invece di suicidarmi mi alzo dal letto tutti i giorni, mi lavo, mi preparo da mangiare, lavoro, mi curo.

E in questi anni ho studiato dedicando tutta la mia vita a cambiare del mondo ciò  che mi fa male, mi sono laureata tre volte, ho girato il mondo lavorando con i bambini ovunque ci sia un’emergenza, sono guarita dal cancro solo per continuare a farlo.

Non osare mai più definirmi fragile o ipersensibile per giustificare il tuo silenzio davanti all’orrore.

Io sono un’eroina e il mio super potere è  proprio la mia empatia.

 


Las personas que no sienten empatía saben – sienten más que nada – que hay algo en ellos que no está en el lugar correcto. Estas personas se ven obligadas a fingir estar tristes o indignadas cuando en realidad no sienten nada. Y esto es agotador. Pasan la mitad de su tiempo odiando a aquellos que sienten tanto.

Y así, un día comienzan a denigrar. Para no sentirse culpables tratan de menospreciar a las otras personas. Aquellas que son empáticas son etiquetadas como demasiado sensibles, exageradas, beligerantes.

Además, si se trata de una mujer, ella “es histérica, tiene menstruación o no ha follado durante mucho tiempo”.

Luego están los hipócritas… Aquellos que, para sentirse cómodos con su conciencia, fingen estar preocupados, diciendo que “ella es demasiado frágil, después de lo que ha pasado, es demasiado sensible, traumatizada, herida …”

Bueno… querido amigo, si hubieras sentido la mitad de lo que siento, te habrías quitado la vida desde hace un tiempo ya. Imagina el dolor que experimentarías al perder a la persona que amas más en todo el mundo, y ahora imagina perderla todos los días, cada vez que alguien es asesinado, violado, abandonado. Así es como me siento. Siempre. Desde que tengo memoria de mi.

Y en lugar de suicidarme, me levanto todos los días, me lavo, me alimento, trabajo, me cuido.

Y en estos años he estudiado, dedicando toda mi vida a cambiar en el mundo lo que me duele; me gradué tres veces, viajé por todas partes, trabajando con niños donde haya una emergencia y me recuperé de un cáncer solo para seguir haciéndolo.

Nunca te atrevas a llamarme frágil o hipersensible otra vez para justificar tu silencio frente al horror.

No soy frágil. Soy una heroína y mi superpoder es justo mi empatía.

Il mio manifesto sulle relazioni / Mi manifiesto sobre las relaciones.

Ho lavorato tanto e ho sofferto tanto per attorniarmi di persone con cui posso essere me stessa al 100%, il che implica poter dire ciò che penso, poter sentire ciò che sento e non aver paura del conflitto, se e quando nasce. Le vere relazioni sono quelle dove non si scappa né  dalle sofferenze proprie né  da quelle degli altri, anche quando sono incomprensibili. E io voglio solo vere relazioni con le persone che amo. Non mi accontento della superficie, non mi accontento di due cene l’anno e sorrisini. Voglio poter piangere ed essere fragile davanti a chi conta per me, esattamente come riesco a ridere e sdrammatizzare altre volte. Voglio anche litigare, perché  no, se c’è  da litigare per chiarire, per pulire, per non vivere con dei dubbi.

Per cui se per te non è così, se per te io non conto a sufficienza per avere questo tipo di rapporto, di sicuro non te ne avrò a male: non si può  mica imparare a voler bene in un certo  modo, non è  qualcosa che posso pretendere. No di certo. Ti vorrò bene comunque e nelle occasioni  in cui staremo insieme in famiglia o fra amici, mi farà  tanto piacere la tua compagnia. Ma ho bisogno di sapere se posso essere me, esattamente come sono, con tutti i miei pregi e i difetti, sia quelli che reputo tali, sia quelli che tu reputi tali. Se posso investire in un rapporto al 100% come ho fatto da subito. Investire in sentimento. In apertura. Se non posso, lo voglio sapere per adeguarmi  e per non soffrire. Forse se avessi fatto questo discorso tanti anni fa in diverse circostanze, così  come lo sto facendo adesso, senza giudizio, mi sarei risparmiata tanto dolore inutile. Non si tratta di bravo o cattivo, giusto o sbagliato. È  più come il caffè. O ti piace o non ti piace, non è che stai a giudicarlo giusto o sbagliato, il caffè. O una cosa la vuoi o no. A 33 anni io non voglio dovermi tenere dentro le cose per paura. Non voglio dover stare attenta a non essere troppo me per non farti arrabbiare, o meglio mi sta anche bene che essere troppo me ti faccia arrabbiare, senza che questo comporti però un “lasciamo perdere” o un “sei negativa” o qualsiasi altro giudizio sulla mia persona. Mi piace stare ferma sul punto, sul pezzo, su quella specifica cosa detta invece che definire una persona intera per un suo sentire o per una frase o un comportamento. Mi piace che se mi dici o ti dico qualcosa che mi o ti fa soffrire, se ne parli, che abbia dignità quel dolore anche se tu o io non lo comprendiamo o addirittura se ci sembra un’esagerazione. Queste cose mi piacciono e mi fanno bene. E le voglio. E se non puoi darmele non posso né  arrabbiarmi né pretenderle. Ma posso scegliere anche io di non dare nel modo in cui so dare. Solo questo.
 
 

Trabajé mucho y sufrí tanto para rodearme de personas con las que puedo ser yo misma al 100%, y eso implica poder decir lo que pienso, sentir lo que siento y no tener miedo de los conflictos, siempre y cuando nazcan. Las relaciones reales son aquellas en las que uno no escapa ni de los sufrimientos propios ni de los demás, incluso cuando son incomprensibles. Y solo quiero relaciones reales con las personas que amo. No estoy satisfecha con la superficie, no estoy satisfecha con dos cenas por año y algunas sonrisas. Quiero poder llorar y ser frágil frente a los que cuentan para mí, exactamente como puedo reír y minimizar otras veces. También quiero pelear, – ¿por qué no? – si hay una disputa para aclarar, limpiar, no vivir con dudas.

Entonces, si este no es el caso, si para ti no cuento lo suficiente para tener este tipo de relación, seguramente no lo tomaré mal: no puedes aprender a amar de cierta manera, no es algo que puedo exigir. Ciertamente no. Te amaré de todos modos y en las ocasiones en que estemos juntos en familia o entre amigos, tu compañía me hará muy feliz. Pero necesito saber si puedo ser yo exactamente como soy, con todas mis fortalezas y debilidades, tanto aquellas que considero como tales, como aquellas que tú consideras como tales. Quiero saber si puedo invertir en una relación al 100%, como empecé a hacer desde el principio. Invertir en sentimiento. En abertura. Si no puedo, quiero saberlo para adaptarme y no sufrir. Tal vez si hubiera pronunciado este discurso hace muchos años en diferentes circunstancias, como lo estoy haciendo ahora – sin juzgar – me habría evitado tanto dolor innecesario. No se trata de bueno o malo, correcto o incorrecto. Es más como el café. O te gusta o no te gusta, no es que el café se juzga bien o mal, no? O lo quieres o no lo quieres. Y a los 33 años yo no quiero callar lo que siento por miedo. No quiero tener cuidado de no ser demasiado yo para que tú no te enfades, o mejor dicho está bien que si soy como soy eso te pueda enfadar en algún momento, mientras que eso no implique un abandono o un “tú eres negativa” o cualquier otro juicio sobre mi persona. Me gusta hablar del problema no de la persona. Hablar de aquella específica cosa dicha que ha molestado en lugar de hablar sobre la persona, definirla por completo por su sentimiento o su comportamiento en un momento dado. Me gusta que si nos decimos cosas que nos hagan sufrir, se hable de ellas, porque el dolor tiene dignidad, incluso si tú o yo no lo entendemos o si nos parece una exageración. Me gustan estas cosas y me hacen bien. Las quiero. Y si no me las puedes dar, tampoco me voy a enojar u ofender. Pero sí, puedo elegir no darte todo de mí, según la manera con la cual doy normalmente. Bueno, sólo quería que supieras esto.

Così come sono

Trasformare il veleno in medicina. Nessun principio buddista è più adatto di questo: mi hanno bombardato di radiazioni per uccidere le cellule tumorali e per capire se ci sono metastasi. I rischi sono tantissimi, fra i quali anche quello di sviluppare la leucemia o altri tipi di cancro ma il gioco vale la candela, a quanto dicono…

Non so che cosa sia più difficile, se tenere a bada la paura dei rischi o delle metastasi oppure riuscire a restare me stessa – un essere umano – fra queste mura dove (quasi) tutti ti trattano come un numero.

L’unica arma che ho contro la paura e la disumanizzazione ospedaliera è la cura. Cura verso gli altri, con sorrisi e piccole premure, cura verso il mio ambiente, raccogliendo le cartacce che altri non si fanno problemi a buttare a terra, cura verso me stessa, cercando il conforto nella lettura di un libro, nelle carezze che faccio a me stessa e nei pianti sommessi, ogni volta che vado in bagno.

Mentre sono distesa nel letto dell’ospedale e aspetto che il tempo faccia il suo lavoro scorrendo via, è  impossibile riuscire a credere che sarò felice. Tutto, dalle pareti bianche alla mobilia funzionale ma completamente priva di carattere, mi racconta tristezza e mi rende troppo ardua l’impresa di riprendere a sognare.

Allora fisso il soffitto e recito. Ricordo le parole del mio maestro. Mi sforzo. Recito di nuovo. Di nuovo cerco le parole di Sensei. E continuo così. Ancora e ancora. E niente, non cambia niente. La mia mente continua a cercare strategie e non le trova, continua a darsi spiegazioni su come sia impossibile riuscire a riprendere la mia vita, impossibile darle una bella spinta, farla volare verso una brillante realizzazione. Niente cambia. Ma io non smetto. E non smetterò. L’ho promesso al mio maestro.  E alle amiche, alle nipoti, alle compagne di fede. Non smetterò ed è questa la vittoria che posso regalarvi anche oggi, così come sono: radioattiva.

 

Quel pezzo di Kosen Rufu che posso fare solo io

Ho il cancro. Beh tecnicamente non c’è più il nodulo nel mio corpo, anche se dovrò sottopormi ad una terapia per essere certa che non ne rimanga traccia. In ogni caso ho il cancro perché una volta che l’hai avuto, ce l’hai per sempre. Per sempre dovrò fare dei controlli, per sempre terrò la cicatrice sul mio collo, per sempre ricorderò la netta sensazione di non avere più il controllo sul mio corpo. Come se lo avessi mai avuto!

Avere il cancro mi ha buttato parecchio giù, anche se ho avuto la capacità di ironizzare e non farmi mai mancare un sorriso sulla faccia. Mi ha debilitato fisicamente e mi ha svuotato emotivamente. Mi ha anche fatto capire tante cose, e mi ha spronato a prendermi cura di me, del mio corpo e della mia mente. Il bilancio al momento è in pareggio. Confido che prima o poi sarà chiuso in attivo: finora almeno sono sempre riuscita a trasformare il veleno in medicina, per dirla alla buddese.

Ho la netta sensazione che c’è qualcosa di importante che devo cogliere da tutta questa situazione, anche se ancora mi sfugge cosa. Intanto però posso condividere con voi alcune piccole illuminazioni parziali. La prima illuminazione riguarda il cancro in sé. Esso è certamente il sintomo, non la causa. Ne sono profondamente convinta e a quanto pare, la metà dei medici che mi stanno curando nutre la stessa convinzione. Nel mio caso il cancro ha avuto diverse cause: la mancanza di amore per la mia vita, il non detto, l’ansia, lo stress e infine l’innesco, ovvero una relazione tossica. La seconda illuminazione riguarda aspetti relazionali. Le persone attorno a te si dividono automaticamente in FONDAMENTALI PER LA TUA VITA e INSIGNIFICANTI: in una frazione di secondo l’uomo per cui avevi perso la ragione per anni può diventare una persona qualsiasi ai tuoi occhi e una persona con cui avevi chiuso tutti i ponti, con serenità e anche con facilità, può tornare ad essere al centro del cuore. Membri della tua famiglia possono riunirsi o allontanarsi in modo drastico e nel giro di pochissimo tempo. Persone che non sentivi da anni e anni, all’improvviso ti cercheranno e acerrimi nemici di cui non ti importava più niente diventeranno importanti. La terza consapevolezza riguarda l’importanza delle parole e delle frasi. Non ti rendi conto di quanto siano dette con superficialità certe cose finché non hai il cancro (o la depressione, o qualsiasi altro problema molto grande). Anche tu le hai dette molte volte con indifferenza o con noncuranza. Ecco alcuni esempi: “Come stai?”. 90% delle volte è una domanda di circostanza, oppure un rompighiaccio. Quando hai un tumore diventa il tuo leitmotiv. Tutti ti chiedono come stai, almeno una volta al giorno e dopo il quarto giorno sei già arcistufa di dover rispondere con il cortese “bene”; al quinto giorno infatti cominci a usare espressioni tipo “in lotta” o “non mollo”, perché ti sei stufata di raccontare cazzate per far stare bene gli altri ma non vuoi neanche essere brutale. Dopo una decina di giorni un “DE MERDA” non te lo toglie nessuno. Altro esempio? Tutta la sviolinata su quanto sei forte, coraggiosa e ispiratrice. NO! non sono coraggiosa, non sono forte..  è solo che la vita non mi ha dato altre possibilità. Non sono un esempio per nessuno e mai ho chiesto di esserlo. Quando mi metti su un piedistallo mi privi della mia possibilità di mostrarmi fragile o spaventata o quella che sono: una malata. Questo ovviamente non vale per le amiche o per i compagni di fede, con cui puoi comunque essere te stessa perché ti amano, ti conoscono e soprattutto non ti hanno idealizzato, anzi sono spesso loro che ti ricordano che puoi piangere.

Infine, ho capito che avere una malattia ti rende vulnerabile in modi che nessuno che non ci sia passato può capire. Il tipo di fragilità a cui tutti pensano è certamente quella fisica, e poi anche quella emotiva. In realtà però, su questi due aspetti si parte abbastanza avvantaggiati grazie alle migliaia di progressi scientifici, alle medicine contro il dolore, all’allenamento culturale e sociale delle varie campagne di sensibilizzazione e di prevenzione. La fragilità a cui nessuno ti prepara è quella spirituale, cosmica per dirla in termini percepiti in modo meno “religioso”. Sono stata e per certi versi sono ancora sull’orlo di un precipizio: sotto i miei piedi c’è la sostanza, le cose che conosco da sempre, le certezze, i valori…; ad un passo da me c’è il vuoto, un vuoto così pieno di niente da essere ingombrante, pesante, presente. Il vuoto di senso, non solo della vita come la conosco da sempre ma anche della vita che ho sempre sognato. Non c’è stato mai il rischio di cadere in questo precipizio. Mai. Ma c’è stata sempre la tentazione. E c’è ancora. L’unica cosa che placa questa tentazione è il buddismo. Giuro che non so come facciano le persone malate non buddiste o in generale quelle senza una spiritualità forte, con un complesso dottrinale completo e coerente. Per ogni domanda, per ogni dubbio, per ogni sussurro demoniaco che questo cancro ha portato con sé, c’è solo un posto dove posso rifugiarmi: nelle parole del mio maestro e di conseguenza, per estensione, le parole di Nichiren e prima ancora di Shakyamuni. Né l’amore, né la mia passione per l’educazione,  e nemmeno la mia sete di giustizia, che per tanto tempo sono state il mio antidoto contro qualsiasi sofferenza, hanno potuto niente contro questa attrazione fortissima verso il nulla.

Il buddismo finora è stata l’unica religione che mi abbia mai convinto, che abbia mai davvero nutrito la mia spiritualità e che mi abbia spinto ad un miglioramento continuo. Il cancro gli ha dato un nuovo ruolo, quello di àncora. Il buddismo mi tiene ancorata alla vita ma non grazie ad un attaccamento o a una paura, come quella di morire, per esempio, o di non esistere (che è peggio). No, non nello stesso modo in cui ti tengono in vita i sentimenti, i desideri, i timori o i dubbi su ciò che viene dopo. Il buddismo mi tiene ancorata alla vita perché me ne restituisce il senso, il nesso con il tutto e rende la mia esistenza indispensabile all’interno di un quadro più ampio, nel quale Elisabeth ha una missione che solo lei può compiere. Quando arriva la tentazione di cadere, il pensiero non corre ai sogni non realizzati o alla sofferenza che provocherei, perché quel nulla li assorbe perfettamente. Quando la tentazione striscia dentro di me, il mio maestro mi esorta a restare per compiere quel pezzo di Kosen Rufu che posso fare solo io.

 

Test: scopri chi sei per Elisabeth

Alla domanda: “Come stai?” Ti ho risposto:

1) “benissimo, alla grande!”

2) “bene grazie.”

3) “ho un piccolo S.D. che cresce dentro di me.” – “ah, sei incinta?” – “no, ho un tumore!”.

4) in lotta.

Soluzioni:

1) Non me ne frega proprio niente di te. Anzi, credo che tu sia anche un po’ invidioso/a, quindi non te la do sta soddisfazione!

2) o sei un/a conoscente oppure qualcuno che non voglio fare stare in ansia.

3) sei una persona intellingente e che stimo tanto. Sono certa che la mia battuta stile humor nero l’hai colta al balzo.

4) sei una persona di cui mi fido e su cui posso sempre contare.

 

Mi merito tutto

Non dimenticherò mai il 31 maggio 2017. Quel giorno ho avuto il coraggio di credere che mi merito il massimo dalla vita, chiudendo alle mie spalle la gabbia che mi teneva prigioniera da due anni. E quell’azione coraggiosa è stata una causa enorme nella mia vita, una causa che mi ha regalato tantissimi effetti. Il primo è stato un bacio quella sera stessa: il tuo, interrotto da un ragazzo che vendeva rose. In quel momento tu mi hai guardato con dolcezza e hai detto “le prendo tutte!”. L’ambiente è solo uno specchio di ciò che abbiamo nel cuore e quella sera la risposta del mio ambiente è stata “ti meriti tutto!”.

 

Decalogo delle frasi tipiche che ho deciso di non dire assolutamente quando qualcuno sta male:

  1. Decidi.
  2. Forse non hai deciso profondamente.
  3. Recita e tutto andrà bene.
  4. Non lamentarti.
  5. Non hai una forte fede.
  6. Non hai messo Kosen Rufu al centro della tua vita.
  7. E’ il tuo karma (quando qualcuno mi rimprovera di qualcosa).
Ognuna di queste frasi, esplicitamente o implicitamente, dà un giudizio sull’altra persona, sul suo comportamento o sulla sua fede.
1. e 2. significano “non hai deciso”.
3. Non stai recitando, o non stai recitando bene.
4. Ti stai lamentando.
5. e 6. chiarissime, già così come sono.
7. emerita stronzata per deresponsabilizzarsi.
Ecco, forse queste frasi le avrò dette anche io in passato, non lo so e non ricordo. Ma oggi quando qualcuno sta male, ascolto. Ascolto. Poi ancora Ascolto. Dopo -forse – parlo: o racconto una mia esperienza che può essere simile, oppure leggo Sensei o Nichiren.
Essere responsabili non significa avere le risposte, o poter giudicare la fede e la pratica degli altri. Essere responsabili significa solo decidere di includere la felicità di tutti nella propria e di conseguenza sostenere gli altri, senza giudicarli, con un ascolto attivo e cercando le risposte insieme a loro, fra le parole dei nostri maestri.

Le avventure di Dolceneve (seconda puntata)

Passavano i mesi e Dolceneve continuava la sua rappresaglia contro gli orchi mascherati da principi e intanto fra una  battaglia e l’altra si riposava sul suo scoglio. Era abbastanza comodo per essere un pezzo di roccia e poi parlava! Passavano ore e ore, soprattutto di notte, a raccontarsi la vita a vicenda. Ogni volta che tornava da lui, lo scoglio aveva una conformazione diversa e ben presto Dolceneve si accorse che stava assumendo una forma umana, finché un giorno si ritrovò seduta sulle sue gambe di pietra. Fino a quel momento l’uomo-scoglio aveva sostenuto Dolceneve soprattutto per riavere il suo corpo umano, ma qualcosa stava cambiando e se ne rese conto mentre la teneva in braccio: lei parlava così vicina al suo volto di roccia e lui non riusciva ad ascoltarla, desiderava solo che si avvicinasse di più. Da quel giorno smise di concentrarsi sull’obiettivo di tornare un essere umano e iniziò ad aspettare il suo arrivo con gioia. Dolceneve, dal canto suo, non si accorse di niente: era troppo stanca dopo ogni battaglia e non riusciva ancora a vedere l’uomo oltre lo spesso strato di pietra. Un giorno tornando da lui, si accorse che non c’era più. Allarmata comincio a chiamarlo, finché in lontananza non vide un giovane uomo che correva verso di lei. Appena la raggiunse, il ragazzo l’abbracciò con tutte le sue forze lasciandola un po’ in imbarazzo e sulla difensiva.

-“Sono io Dolceneve, il tuo amico scoglio.” le disse non appena si accorse della sua faccia sorpresa.  “Sono tornato ad essere l’uomo che ero.  Mi chiamo Giovedì, piacere di conoscerti!”

-“Ah.. sei tu!” Rispose Dolceneve ancora leggermente incredula.

– “Si! grazie a te, la maschera di roccia che mi nascondeva il cuore si è sgretolata e sono tornato a sentire le emozioni di cui avevo tanta paura.”

Lei lo guardava incuriosita e spaventata allo stesso tempo. Non era abituata a stare così vicina ad uomo, senza doversi difendere. Ci mise un po’ di tempo a fidarsi e nel giro di qualche settimana ripresero a raccontarsi le loro avventure, stavolta tenendosi per mano.

Cari amici buddisti, ho una confessione da farvi…

… quando ho scoperto che avrei potuto perdere la voce a causa del tumore, avrei voluto uccidervi tutti a colpi di scarpe lanciate addosso ogni volta che mi avete risposto con la tipica frase “decidi e non perderai la voce”. Non è così. Noi possiamo decidere che tutto ciò che accade sarà la cosa giusta per la nostra felicità, decidere di avere una fede così grande da credere che possiamo affrontare tutto e trasformare qualsiasi ostacolo in occasione. Possiamo essere certi che tutte le sfide arrivano solo nel momento in cui siamo in grado di affrontarle e che sicuramente avverranno nelle condizioni più favorevoli possibili, con le più grandi protezioni dell’universo. Ma non possiamo credere che recitare significhi che niente di brutto ci accadrà. Non siamo qui per scansare le difficoltà, siamo qui per superarle nel modo più creativo, più luminoso e più efficace possibile. Quando una persona non realizza un obiettivo si sente frustrata e mette in dubbio se stessa e la propria fede, spesso proprio a causa di questa superficialità nell’incoraggiare. La pratica non è una bacchetta magica.. è un catalizzatore di esperienze, di vita vissuta al massimo, di montagne gigantesche macinate fino a granelli minuscoli. Quando ho saputo di avere un tumore la prima cosa che ho pensato (piangendo si!) è stato “guarda che giro mi sta facendo fare la vita”, certa che avrei vinto.. ma che la vittoria sarebbe stata provare con la mia vita questo buddismo, in qualsiasi modo la vita avrebbe deciso, contro ogni cattivo amico o dubbio, contro ogni ostacolo che si sarebbe piazzato davanti. Questo non significa che gli obiettivi non si realizzano (io non ho perso la voce per esempio!), solo che anche quando non si realizzano non siamo noi che non andiamo bene (o la nostra fede, o “è solo che non hai deciso profondamente!). E’ la vita che sa molto meglio di noi cosa siamo in grado di fare e in che modo dobbiamo arrivare a quella realizzazione. La vita sa dove sta davvero la nostra felicità e spesso essa non coincide con quello che comunemente siamo portati a pensare.

Quindi da ora in poi, vi prego di fare attenzione quando incoraggiate qualcuno! Non promettete qualcosa di cui non potete avere la certezza; non perché il Gohonzon non funziona ma perché il Gohonzon la sa molto più lunga di noi!

Una causa felice

Non mi ero mai resa conto che non piangiamo solo dagli occhi. Da quando mi hanno operato e ho un taglio alla gola, piangere è diventato impossibile, più di parlare e più di mangiare. E oggi avrei tanto voluto piangere.

Ho passato il pomeriggio piegata in due dal dolore alla cervicale e alla testa. Mentre ero stesa sul letto con le persiane chiuse, complice il buio che c’era nella stanza, la mia oscurità mi ha attaccato per l’ennesima volta. Ha sparato tutti i proiettili che aveva in canna: le paure, i dubbi, gli obiettivi non realizzati.

“Eccoti qua… paralizzata dal dolore il giorno prima del 18 novembre. Non dovevi avere la tua famiglia entro questa data? E invece rischi la vita, da sola, con tutti i tuoi problemi moltiplicati per mille grazie a questa situazione: dottorato sospeso, rapporto con la mamma peggiorato, tutte le preoccupazioni amplificate dalla tua condizione e se dovesse succedere qualcosa adesso, non saresti in grado di fare niente per nessuno.  Da ieri hai ricominciato a fare daimoku e sei anche andata a zadankai e a cosa è servito? Sei sicura che vuoi ricevere dei risultati positivi? Sei sicura che vuoi vivere? Per cosa?”

E così per un’ora. L’ho ascoltata, mi sono fatta colpire ancora e ancora. Senza piangere, respirando piano, sotto le coperte. E poi mi sono detta: “Ok, la situazione è questa. Che vuoi fare?” E la risposta è stata naturale: “voglio essere felice”. E questa volta non è stato un desiderio nato dalla sofferenza o dalla paura. Non è stato un “voglio essere felice perché non voglio più stare male”. E’ stato un vero “voglio essere felice così come sono, qui, in questa situazione: ho una malattia, voglio essere felice! non ho una figlia, voglio essere felice! Non ho una famiglia, voglio essere felice!” E lì, in quel preciso istante è arrivata una illuminazione: anche tutti gli obiettivi che mi ero prefissata per il 18 novembre erano frutto della mia oscurità: volevo una famiglia per non stare da sola, per paura, perché ce l’hanno tutti…

E poi BAM! un’altra consapevolezza mi ha trafitto il cuore e lì è arrivato il nodo in gola: il nucleo della famiglia armoniosa che volevo costruire sono io, con questo corpo che ho martoriato per anni, che non ho rispettato mangiando troppo o troppo poco, che ho abbandonato alle violenze fisiche e psicologiche di altre persone, ignorando i miei bisogni, somatizzando tutte le mie ansie. Avrei voluto piangere ma mi faceva troppo male e allora mi sono abbracciata, mi sono data dei baci sulle mani, sulle braccia… ho provato compassione per me stessa e poi mi sono detta spontaneamente e umilmente: “SEI MERAVIGLIOSA”.

E’ stato come togliere un grosso macigno sul mio petto, e mi si è alzato lo stato vitale.

E ho rideterminato:

“Da oggi reciterò per trovare il vero motivo per cui voglio una famiglia, quello che non è influenzato dal karma, dalle paure, dalle pressioni sociali: una causa pura, pulita, felice.”

Così, oggi 17 novembre 2017, rilancio per il prossimo 18 novembre 2018!

 

Ti amo

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Foto di Aiden Doriguzzi Breatta

Ho deciso che non mi vergognerò più di te e ti sfoggerò come si fa con le opere d’arte. Ti loderò per il resto dei miei giorni. Tu sei il mio capolavoro, così come sei, con le smagliature e le rughe. E con quei capelli d’argento, che qualcuno si ostina a definire bianchi.

Sei il mezzo di comunicazione più potente che ho e l’amplificatore della mia voce. Sei il contenitore sacro della mia mente, sei l’involucro che nasconde i miei pensieri e certe volte li mostra a chi sa guardare veramente. Tu sei la parte esteriore di me, sei la mia anima di carne e ossa. E sei bellissimo… persino ora che sei un po’ ammaccato dentro. 

A tutte le persone della mia vita..

Se dovessi morire, vi prego di non dubitare della vita, della vostra religione o del vostro Dio. Io non ho nessun dubbio: la vita ha sempre ragione. Mi auguro che riusciate a gioire delle piccole cose anche nei momenti peggiori, e a creare valore proprio grazie alla sofferenza. Spero che mi lascerete andare senza rimpianti e senza rimorsi: avete tutti fatto il meglio che potevate.

Desidero che mia madre senta il suo valore, che mio padre si prenda cura di sé e che entrambi si perdonino per gli errori del passato. Mi auguro che mia sorella non smetta di cercare il suo posto nel mondo, in tutti i sensi e non solo come madre; che mio fratello sia orgoglioso di sé, nonostante gli errori;  che mio nipote Gabriele rimanga per sempre il sognatore che è oggi e che faccia di tutto per realizzare i suoi progetti. Spero che le donne della mia famiglia si renderanno conto di esserne i pilastri. Per Cristina voglio la fiducia in se stessa e nell’amore; per Karin la certezza del suo valore, per Adriana la soddisfazione e il riconoscimento di ogni suo sforzo e per Deborah la fede in qualcosa di grande, per Maria un lavoro all’altezza della persona che è, per Nadja che non smetta mai di mettersi al centro, per Sarah che coltivi tutte le sue passioni, per Martina che dia un grande senso alle sue sofferenze, per Valeria che si senta amata da tutti.

Spero che tutte loro si sforzeranno di guardarsi con i miei occhi, e questo vale anche per  tutte le donne della mia vita: le mie amiche, mia sorella, mia madre, le mie compagne di fede. Siete tutte come un albero dalle radici salde, che attraversa gli inverni più freddi ma che alla fine fiorisce sempre. Siete preziose, coraggiose, resilienti. Siete dei soli che riscaldano e danno luce anche quando il cielo è coperto. Siete fantastiche e uniche. Spero che ricordiate sempre che tutti i vostri errori sono il fango dal quale avete fatto crescere magnifici fiori di loto.

Se dovessi morire, vi prego di dare alla sofferenza il senso più grande che potete darle: donatela agli altri, trasformandola in compassione ed empatia, e usatela per cambiare il mondo.  In questo modo sarà come se lo cambiassi anche io.

 

 

L’amore è sempre l’unica risposta

La verità è che lo sforzo più grande sta nel riuscire a non ridurre tutta la tua vita, tutto il tuo corpo a quella parte di te che è impazzita.

Non riesci a credere che la gente non ti veda solo come un cancro che cammina, eppure tu non hai mai ridotto nessuno alle sue parti rotte, non hai mai considerato una persona malata meno persona.

La verità è che sei tu che ti riduci alle tue mancanze, ai tuoi fallimenti, alle tue cellule malate. E sei tu a dover allargare la visione di te, a riempire la tua vita così tanto che le sofferenze ci navigheranno dentro invece di prosciugarla.

Se solo riuscissi ad amarti veramente. E amare proprio tutto. Soprattutto quel pezzetto di te che ti sta gridando dentro.

L’amore è sempre l’unica risposta. Non è mai quella facile, però.

 

 

Un tavolino, due sedie e una finestra. Un articolo da scrivere. All’improvviso lei riceve una mail e tutto cambia. Da quel momento la vita rallenta e smette di essere la sua,  sembra quella di qualcun’altra e lei la osserva da lontano. Vede una ragazza che cammina in una strada affollata di Beirut e ride parlando con una sua amica. Poi smette per un secondo: un pensiero velocissimo le ha attraversato la mente e lei lo ha cacciato via prima che l’amica se ne accorgesse. Passa un po’ di tempo e i momenti non sono più i suoi momenti. Sono quelli di un’altra. E continua a vedere istanti della vita che non le appartiene più.

Tre ragazze abbracciate fuori dall’ospedale. Una di loro piange e le altre due raccolgono le lacrime e la paura che le scorre sul viso.

Una voce al telefono chiede “quanto è grave?” e dall’altra parte qualcuno cerca di nascondere la preoccupazione che salta fuori insieme alle parole. 

Una festa dove qualcuno manca. Tutti sanno perché. Nessuno lo dice a voce alta. 

E così continua a vivere fuori da sé, una vita che non sembra più la sua. Vede persone che parlano con volti di comprensione e tristezza, senza però sentire quello che dicono.  Pianifica viaggi senza data e scrive parole da cantare con una voce che forse non avrà più. Impassibile, guarda il mondo che le ruota attorno e quello dentro di lei che esplode in miliardi di cellule impazzite, ripetendo dentro di sé la cantilena che conosce a memoria: “Non posso lasciarmi andare alla paura, altrimenti tutti avranno paura.”

Sto tornando in Italia. I miei giorni libanesi sono finiti e con loro anche gli ultimi momenti spensierati. Non ho lasciato solo i bimbi e Giulia a Beirut. Ho lasciato lì anche il mio sogno. Almeno per il momento.

Una volta rientrata in Italia non sarò più una ricercatrice. Sarò una malata di cancro. A Pisa ci sono le persone che amo e a cui non ho potuto non dire la verità, mentre a Beirut potevo fingere di essere ancora sana.

In Italia poi, c’è anche il senso di colpa: quando devi dire a qualcuno a cui vuoi bene che sei malata, ti senti responsabile per la sua tristezza. Lo dici piano, quasi sottovoce e mangiando le parole. Cammini in punta di piedi nei  cuori di coloro che ami, sdrammatizzi, scherzi, cerchi di fargli sentire che sei tranquilla. Dalla tua serenità dipenderà la loro.

E nei momenti in cui non ci riesci, in cui ti abbandoni all’oscurità che ti dice “lo vedi? Anche questa! Non sarai mai felice!”.. In quei momenti che si fa?

Basta non fingere. Basta parlare e fare uscire i demoni per guardarli in faccia. Come la paura, ad esempio.

Non del dolore in sé. Non è mai il dolore che ti fotte ma la sensazione che hai mentre lo provi. Quella vocina bastarda che ti ripete che non ce la farai e che  starai male per sempre.

E tu ascoltala. Lasciala parlare e poi dille: “Userò anche la mia malattia per creare valore. Userò anche il dolore per Kosen Rufu e userò anche te, paura, per incoraggiare gli altri, per dimostar loro con il mio esempio, come la paura non possa niente contro una grande fede”.

Fregata!

 


Regreso a Italia. Mis días libaneses han terminado y con ellos incluso los últimos momentos sin preocupaciones. No dejé solo a los niños y a Giulia en Beirut. También dejé mi sueño allí. Al menos por el momento.

Una vez de vuelta en Italia, ya no seré una investigadora. Seré una enferma de cáncer. En Pisa están las personas que amo y a las que le tendré que decir la verdad, mientras que en Beirut podía fingir de estar aún bien.

En Italia, también hay un sentimiento de culpa: cuando tienes que decirle a alguien que amas que estás enfermo, te sientes responsable de su tristeza. Lo dices suavemente, en voz baja y comiendo las palabras. Caminas de puntillas en los corazones de tu seres queridos, minimizas, bromeas, tratas de hacer que se sientan tranquilos. Su serenidad dependerá de la tuya.

Y en los momentos en que no puedes hacerlo, cuando te abandonas a la oscuridad que te dice “¿Lo ves? ¡También esto! ¡Nunca serás feliz!”. ¿En esos momentos que haces?

Solo no finjas. Solo hablas y sacas a los demonios para mirarlos a la cara. Como el miedo, por ejemplo.

No del dolor en sí. Nunca es el dolor lo que te jode, sino la sensación que tienes mientras lo pruebas. Esa maldita voz que te repite que no lo lograrás y que estarás enfermo para siempre.

Y tu escuchala. Déjala hablar y luego dile: “También usaré mi enfermedad para crear valor. También usaré el dolor por Kosen Rufu y también te usaré a ti, miedo, para alentar a otros, para mostrarles con mi ejemplo, cómo el miedo no puede hacer nada contra una gran fe”.

¡Jodita!

Fede significa fidarti della vita.. Credere che ha ragione nonostante tutto.. Nonostante le sofferenze, nonostante le cose che non capisci. E soprattutto significa avere fiducia, anche se a meno di un mese e mezzo da quella famosa data che avevi scelto come il giorno della tua prova concreta, il giorno in cui avresti raccontato la tua grande esperienza con una piccola vita in arrivo, ti ritrovi invece con la morte che ti cresce dentro. Ma nonostante tutto ti fidi e lo senti: la tua rivoluzione passa da lì!

La vera lotta

Quando ti dicono che hai un tumore succedono due cose strane. La prima è che mentre leggi il messaggio o ascolti la persona che te lo sta dicendo smetti all’improvviso di essere lì dove sei, in quel momento presente. Proprio come nei film, cominci a sentire tutto in modo ovattato e non riesci a seguire più il discorso: tutto si ferma a quel “mi spiace informarla che…”. Torni dopo qualche ora, dopo un bel pianto e un’amica che ti abbraccia forte. Ci metti un po’ ma torni. La seconda cosa strana è che continui ad andare via e tornare. Cammini per strada, parlando con qualcuno, e all’improvviso ricordi “ho un tumore!” e la tua mente esce fuori da quell’attimo. Ridi con i tuoi coinquilini e di nuovo torna quella consapevolezza, di nuovo non ci sei più. Mangi. Esci. Guardi un telefilm. Lavori. E non ci sei. Non sei più nel presente. Sei nel futuro. Quello che ti immagini. Un futuro dove i tuoi cari piangono, dove tu non hai le forze di continuare a lavorare, dove non esiste una relazione sentimentale. Penso che la vera lotta inizia da subito, non dall’appuntamento con il chirurgo o dalla chemio. Inizia nel momento in cui lo scopri, in cui cominci a sentirlo crescere dentro di te. C’era da molto ma appena ti informano della sua presenza, è lì che inizi a percepire che qualcosa non va, che tu non sei più completamente tu. E la vera lotta è rimanere aggrappata al presente e non lasciare che la paura prenda il sopravvento, è rimanere la vera te, quella che combatte nonostante tutto, che ama nonostante tutto, che sogna nonostante tutto. Rimanere quella che hai imparato ad essere, affrontando sfide più grandi di quel pezzetto di tumore.

Se questa è una donna

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Ti insegnano presto che il tuo posto nel mondo è accanto ad un uomo. Potrai lavorare ovviamente – anzi adesso devi! – ma questo non ti esonererà dall’essere il “cuore del focolare domestico”. Da bambina ti preparano al tuo ruolo, regalandoti le bambole. Di due tipi: una per insegnarti che il tuo compito è prenderti cura dei figli, l’altra per ricordarti che mentre lo fai devi essere figa e magra.

Potrai avere più lauree e più esperienze all’estero, fare gli straordinari e firmare fogli bianchi ma verrai sempre pagata meno di un uomo.

Dovrai essere abbastanza porca da far eccitare il tuo uomo ma non troppo, per non fare eccitare gli altri. E se per caso verrai costretta ad avere un rapporto sessuale, dovrai chiedere la nazionalità all’uomo che ti ha violentata prima di decidere se ti conviene denunciarlo: se è un immigrato (meglio se africano o “arabo”) si tratterà di stupro. Se è italiano probabilmente te la sarai cercata.

Inizierai presto a capire che cibo e tempo sono i tuoi nemici giurati. Ad un certo punto potrai addirittura percepire il cibo che si trasforma in grasso e il tempo che ti scorre sulla pelle. Dopo i 30 poi, avrai proprio una data di scadenza marchiata a fuoco nel cervello.

Se per caso superato i 35 non avrai (ancora!) un marito e un figlio comincerai a evitare di tornare nel tuo paese di origine. Avrai solo una settimana di ferie e la metà volerebbe nel tentativo di rispondere all’interrogatorio dei tuoi parenti e dei tuoi vicini sul perché “una così bella figliola” non si è ancora “sistemata”. Un po’ l’equivalente di chi a 25 anni non ha ancora la laurea ma molto più grave.

Questo è essere una donna in Italia. Ma non lamentiamoci.. ci sono donne che sono costrette a indossare il burka, altre che vengono infibulate e altre ancora costrette a prostituirsi sulle nostre strade. Almeno noi siamo libere di metterci minigonne inguinali ma stando attente a non farci stuprare; possiamo fare sesso liberamente ma cercando per lo meno di fingere un coinvolgimento emotivo.. si perché gli uomini vogliono venire a letto con te ma poi ti reputano una troia se lo fai solo per il piacere di farlo; e infine nessuno ci costringe a fare sesso a pagamento.. al massimo sesso per “dovere”.


 

Pronto te enseñan que tu lugar en el mundo está al lado de un hombre. Obviamente puedes trabajar, – ¡de hecho ahora tienes que hacerlo! – pero esto no te eximirá de ser el “corazón del hogar doméstico”. De niña te preparan para tu papel, dándote las muñecas. De dos tipos: una para enseñarte que tu trabajo es cuidar a los niños, el otro para recordarte que, mientras lo haces, tiene que ser guapa y delgada.

Podrás tener más títulos y más experiencias en el extranjero, trabajar horas extras y firmar hojas en blanco para que te puedan despedir cuando te quedas embarazada, pero siempre te pagarán menos que a un hombre.

Tendrás que ser lo suficientemente zorra como para excitar a tu hombre, pero no demasiado, para no entusiasmar a los demás. Y si por casualidad te verás obligada a tener relaciones sexuales, tendrás que preguntar la nacionalidad del hombre que te violó antes de decidir si debes denunciarlo: si es un inmigrante (mejor si es africano o “árabe”) será una violación. Si es italiano, probablemente lo habrás buscado.

Pronto comenzarás a comprender que tus enemigos jurados son la comida y el tiempo. En algún momento, incluso puedes percibir la comida que se convierte en grasa y el tiempo que corre sobre tu piel. Después de los 30, tendrás una fecha de caducidad marcada en el cerebro.

Si por casualidad superarás los 35, y no tendrás (¡todavía!) un esposo y un hijo,  comenzarás a evitar regresar a tu país de origen. Solo tendrás una semana de vacaciones y la mitad volaría en un intento de responder al interrogatorio de tus familiares y vecinos acerca de por qué “una hija tan hermosa” aún no se ha “establecido”. Un poco el equivalente de aquellos que aún no se han graduado a la edad de 25 años, pero mucho más graves.

Esto es ser una mujer en Italia. Pero no nos quejemos … hay mujeres que se ven obligadas a usar el burka, otras que vienen infibuladas y otras que aún se ven obligadas a prostituirse en nuestras calles. Al menos somos libres de usar minifaldas inguinales, pero teniendo cuidado de no ser violadas; podemos tener relaciones sexuales libremente pero al menos tratando de fingir una implicación emocional … sí, porque los hombres quieren acostarse contigo, pero luego te consideran una puta si lo haces solo por el placer de hacerlo; y finalmente nadie nos obliga a tener sexo por una tarifa … Al máximo sexo por “deber”.

 

Il male non nasce. Il male diventa

Il perdono sa che il male non nasce… il male diventa. Questo è il suo potere: restituire la verità, denudare il carnefice delle sue vesti di cattiveria gratuita.

E soprattutto mostrare che fra i due, ad essere forte è la vittima, che smette di essere tale nel momento stesso in cui se ne rende conto.

Il perdono libera. La vittima dall’impotenza. Il carnefice dal suo ruolo. Così la vittima torna ad avere il controllo sulla sua vita e il carnefice smette di averlo.

 

 

 

Continuava a chiedere scusa. Piangendo. Continuava a parlare con la voce spezzata, a ripetere “I am sorry for my feelings” e tutto quello che volevo fare era andare lì, abbracciarla e dirle “Do not apologize, it hurts when you do it.”

I sorrisi erano scomparsi dalle facce di tutti gli altri. Al loro posto occhi rossi o sguardi vuoti. Se fai questo lavoro o ti lasci toccare il cuore sapendo che non tornerà mai più come prima o costruisci un muro attorno ad esso, uno di quelli insormontabili che dovrebbero proteggerti e invece ti isolano e basta.

Continuava a piangere pensando a quei bambini. Pensando ai colleghi morti sul campo. Piangeva e si scusava. E noi restavamo lì, ad ascoltare quello che lei non riusciva a dire se non con quello sguardo di dolore, più rumoroso di un grido.

Se fai questo lavoro e ti lasci toccare il cuore, non tornerai mai più come prima. Io non tornerò più come prima. Per fortuna.

Ti perdono.
Per le urla. Per i tuoi abbandoni. Per le tue paure. Per i baci che non mi hai dato e per le foto di noi che non hai scattato.
Ti perdono per la sofferenza nascosta dalla cattiveria.
Per le tue fragilità che sono diventate le mie. Per i tradimenti e le bugie. Ti perdono per il dolore e per la rassegnazione.
Ti perdono. E mi perdono. Per quella schiavitù mascherata d’amore a cui ci siamo condannati per due anni.

Il rumore dei tuoi baci riusciva a coprire il silenzio che lui mi aveva scavato dentro.

Le tue mani calde erano come cerotti per l’anima e la tua risata un balsamo per le cicatrici.

E poi cosa è successo? Cosa succede ora?

Un piccolo demonio mi corre sulla schiena e arriva all’orecchio, per sussurrarmi che sono una frigida del cuore.

Forse sono davvero una radiolina rotta, sintonizzata solo sul canale della sofferenza, e la gioia non riesco a riceverla e non la trasmetto.

O forse no.

Forse non posso dare un amore che non riesco ad accogliere, che non riesco a contenere perché ho il cuore così puntellato da aghi, che perde da tutti i lati.

Non lo so.

So solo che i tuoi baci suonavano una musica che voglio riascoltare.

 

 

Nuove note suona la mia vita adesso. Lasciami suonare.

Libri che non ho letto e giorni ancora non vissuti aspettano solo me. Lasciami vivere.

Ci sono baci che ricevo e carezze che mi lasceranno senza fiato. Lasciami amare.

Suona la tua musica, vivi i tuoi giorni e ama senza rimpianti. Lasciami andare.

 

 

Tutta una vita in un sogno

Antonio e Maria si sono conosciuti fra i banchi di scuola. Al liceo, Antonio era molto timido e non riusciva a chiedere a Maria di uscire. Maria lo guardava tutti i giorni con quegli occhioni innamorati ma lui non riusciva a prendere coraggio. Finché lei si decise e un giorno, dopo mesi di sguardi ammiccanti, si avvicinò a lui e gli disse: “Allora ti decidi? o devo dare una possibilità a quel pesantone del tuo compagno di banco?”. Lui rimase fisso immobile e diventò tutto rosso, lei fece per andarsene e allora lui con uno scatto veloce la prese per un braccio, si avvicinò alla sua faccia che odorava di rose e le schiocco un bacino veloce sulla guancia. Lei fece una risatina e disse: “Lo prendo per un si. Domani sera alle sette vieni a casa mia e chiedi a mio padre se posso uscire con te, indossa una cravatta e metti la colonia perché a mia madre non piacciono i ragazzi che non profumano.”

Era il 1967. E da allora Antonio e Maria non si separarono mai. Finito il liceo si sposarono ed ebbero quattro figli, due maschi e due femmine. Viaggiarono molto ed ebbero una vita piena di piccole e grandi vittorie. Tante gioie e tante risate ma anche tante lotte, come quando Maria dovette combattere contro un tumore all’età di 46 anni.

Per due anni non seppero se stavano per separarsi per sempre oppure no, ma non mollarono mai la presa. Quando Maria stava troppo male per alzarsi dal letto, Antonio le faceva compagnia tutto il giorno, leggendo per lei, raccontandole le novità del quartiere o semplicemente accarezzandola mentre dormiva. Ogni tanto i figli si proponevano di dargli il cambio. Un giorno Teresa, la figlia più grande gli disse: “Papà, perché non esci un po’, vai al bar dai tuoi amici e ti fai una bella partita a carte per svagarti, ci sto io con la mamma.” Lui le sorrise e le rispose: “Grazie Teresa, ma l’unico svago che voglio è tua madre. Ogni momento che passo con lei è prezioso più di un gioiello e non me ne perderò nemmeno uno finché avrò aria nei polmoni. Avrò tempo per giocare quando tua madre starà meglio e non mi vorrà più fra i piedi, per spettegolare con le vicine.”

Finalmente dopo qualche mese Maria cominciò a stare meglio ed effettivamente quando riprese a invitare le amiche a casa, Antonio tornò al bar e alle sue carte. Questa fu una delle tante sfide che la vita presentò loro. Nel corso degli anni vissuti assieme non si lasciarono mai. Finché non arrivò l’ultima sfida, quella che li avrebbe separati per davvero.

Una mattina Antonio andò a pagare le bollette alla posta e non ritornò più. All’inizio Maria si arrabbiò pensando che si fosse fermato al bar a giocare a carte, senza avvisare che avrebbe fatto tardi. Quando all’ora di pranzo non si presentò, lei si mise la giacca e andò al bar per prenderlo per le orecchie come aveva fatto tante altre volte. Appena arrivata capì subito che c’era qualcosa che non andava: il bar era vuoto, nessuno stava giocando. Ma allora Antonio dov’era?

Allarmata chiamò subito Francesco, il figlio maggiore. Lui la rassicurò dicendole che lo avrebbe cercato con la macchina in tutti i posti dov’era solito andare, e che avrebbe chiesto aiuto ai suoi fratelli e ai suoi amici. Quando alle otto di sera ancora nessuno aveva notizie, chiamarono i carabinieri. Dopo solo due ore, due carabinieri si presentarono a casa loro con Antonio. Si era perso e lo avevano trovato al parco in uno stato confusionale. Maria lo abbracciò forte e lui le disse solo “scusami” e poi scoppiò a piangere. Lei lo accarezzò e gli rispose che era tutto apposto, lo accompagnò in camera e lo mise a letto. Per farlo addormentare cominciò a cantargli la loro canzone d’amore e lui le sorrise.

Il giorno dopo Maria lo accompagnò in ospedale. Il dottore gli confermò subito i suoi sospetti: Antonio aveva l’alzheimer. Da quel giorno iniziarono gli anni più difficili della loro vita. Vivevano ogni momento con il terrore che fosse l’ultimo che Antonio potesse ricordare. Erano gelosi di ogni singolo istante passato insieme e si guardavano come in quella classe del lontano 1969. Finché un giorno Antonio non ricambiò quello sguardo e le chiese: “tu che ci fai in casa mia?”. Maria sentì le ginocchia cedere sotto il peso di quelle parole e capì che era arrivato il momento che tanto temeva: l’amore della sua vita non si ricordava più di lei, o meglio non la riconosceva e le chiedeva dove fosse la sua Maria.

Da allora Maria si prende cura di lui. Dopo i primi tempi in cui cercò di fargli capire che era lei Maria e che erano invecchiati insieme, si arrese al fatto che lui non riusciva ad elaborare quella nuova informazione e smise semplicemente di provarci. Iniziò a parlarli seguendo la sua logica, entrando nel suo mondo, quello in cui lui parla della sua amata e la cerca, e lei lo ascolta in silenzio, nascondendo il dolore.

Quando qualcuno le chiede il perché lei rimanga al suo fianco, aggiungendo che forse sarebbe più facile per lei portarlo in un istituto che si occupa di questi casi, lei risponde così: “Lui non mi lascerebbe mai sola, anche se non potesse raggiungermi. Finché vivrò gli darò il mio amore, anche se non avrò più il suo in cambio. In una piccola parte del suo cuore sicuramente lui sentirà che la sua Maria è accanto a lui, e questo mi basta.”

Antonio non vuole dormire con un’estranea. Lui vuole la sua Maria e si addormenta grazie ai sonniferi, pronunciando il suo nome. Maria piange ogni notte, abbracciando il cuscino, fingendo che sia lui e ricordando quando era bello addormentarsi fra le sue braccia. La mattina si alza e gli prepara la sua colazione preferita e quando lui la ringrazia e le dice che la sua Maria gliela prepara sempre, lei gli risponde: “infatti questa l’ha preparata lei, solo che è dovuta scappare a lavoro e mi ha chiesto di fare in modo che la mangi tutta” e allora lui la mangia, con un grande sorriso stampato sul volto. E Maria si alza ancora la mattina solo per quel sorriso.

Grazie Karma

Se trasformi il karma, quella certa situazione che ti fa stare tanto male non si ripresenta più nella tua vita.

Ma come trasformi il karma? Proprio grazie a quella cosa che ti accade e ti riaccade, quella sofferenza che ti fa malissimo e ti fa dire: “Di nuovo a me??”.
Il karma ti presenta sempre lo stesso conto e, finchè non lo paghi, continuerà a ripresentartelo.

E come si paga? Affrontando quella sfida con il daimoku e mettendo azioni in controtendenza.

E come capisci che hai effettivamente trasformato? Quando la stessa identica situazione non ti fa più male come prima, quando anzi addirittura senti gratitudine per la rivoluzione umana che ti ha costretto a fare.

E cosi arriva il momento in cui, quello che otto mesi prima ti aveva devastato fino a farti perdere sette kili in due settimane, quel dolore così atroce che ti lascia senza fiato e che ti fa sentire che tutto è finito, torna e tu stai bene, non cadi e stavolta senti che tutto sta per iniziare e in un modo completamente nuovo! E soprattutto capisci che quel karma così pensante era esattamente su misura per te, fatto apposta per farti superare i tuoi limiti e farti diventare la persona che volevi, in quello specifico aspetto della vita.
Infatti sai che hai vinto nel cuore, quando la prima cosa che pensi è “Grazie Karma!”

Oggi, di fronte all’ennesimo massacro, decido di assumermi la piena responsabilità dell’orrore perpetrato da alcuni dei miei simili, e prometto che dedicherò tutta la mia vita a piantare semi di pace per bilanciare con le mie azioni, quelle distruttive di coloro che non hanno alcun rispetto per la sacralità della vita. Per ogni atto di odio, porterò avanti la mia personale rappresaglia di fiducia e amore.

Oggi ridetermino di combattere l’oscurità che incombe sul nostro pianeta, illuminando quella che alberga nel mio cuore.

Prometto che sognerò un mondo di pace fino all’ultimo istante della mia vita, dovessi rimanere l’unica sulla faccia della terra a credere ancora nelle persone.
Questo è il mio atto di ribellione: continuare a sperare!

E che niente sia…

Voglio qualcuno che mi aspetti ansioso al binario del treno. Qualcuno che mi guardi sognante mentre mi vesto, dopo aver fatto l’amore.

Qualcuno che adori i miei baci. Che non veda l’ora di andare a letto per abbracciare il cuscino pensando a me.

Voglio essere chiamata “Amore”. Voglio poter chiamare “Amore”.

Voglio foto stupide e picnic improvvisati. Danze sotto la pioggia e corse sulla spiaggia.

Voglio qualcuno da scegliere ogni giorno e da cui essere scelta.. sempre.

Voglio una persona che mi metta al centro dei suoi progetti futuri, che guardi in avanti, includendomi. Che voglia condividere ogni vittoria e ogni sconfitta.

Voglio nomi di bambini scritti su pezzi di carta sparsi per casa e alberi da piantare insieme, nel giardino.

Voglio vacanza esotiche e vacanze noiose a casa delle rispettive famiglie. Voglio una suocera che mi rompa le scatole e un suocero che mi accolga come una figlia.

Voglio nuove sorelle e nuovi fratelli. Cugini e zii che ancora non ho mai conosciuto.

Voglio qualcuno che mi ami e abbia il coraggio di donarsi.

Voglio una persona capace di ritrovarmi nel suo cuore ogni volta, cercandomi con la solitudine e con il coraggio di non drogarsi di gente per anestetizzarsi dalla mia mancanza.

Voglio tutto.

O niente.

Quindi..

..che niente sia.

L’amore è un dono prezioso ma non ha nessun potere magico. Non è una soluzione o una scorciatoia. L’amore non illumina la caverna buia in cui ti trovi. Sei tu che devi fare luce nella tua oscurità per vedere che l’amore è proprio lì. E’ quel fiorellino che cresce sull’asfalto. E’ quella piccola vita che resiste nonostante le avversità, nonostante la mancanza di sole e di terra.
L’amore non ti risolve i problemi. Non ti solleva dalle preoccupazioni. L’amore è l’effetto e non la causa della felicità.
Non era amore quella sensazione di leggerezza e felicità che ti faceva sentire invincibile ma ti allontanava dalle tue battaglie interiori. Era estasi, mondo di cielo. Anestetico. Ma eri così occupato a credere che invece lo fosse e che l’amore ti avrebbe dovuto salvare dai tuoi demoni, che non hai capito che avresti dovuto salvarlo tu.

Chissà che fiore sarebbe diventato se avessi avuto il coraggio di prendertene cura.

Cari mamma e papà..

Cara mamma, caro papà,

vi perdono.

Mamma ti perdono per la tua tristezza.

Mi hai dato tanto, ma non mi hai insegnato l’amore per me stessa. Come potevi tu, che non ti sei mai amata? Come potevi tu, che non sei stata amata come ti saresti meritata?

Ti perdono per avermi sentita così tanto parte di te, da non amarmi di riflesso. Mi hai amato a modo tuo, ma non come mi sarei meritata.

Ti perdono perché hai fatto quello che potevi. Tutto quello che potevi con quei pochi mezzi che avevi, con il poco che ti ha dato la vita. Come potevi sapere.. come potevi capire senza nessun aiuto?

Papà ti perdono per esserti arreso alla vita.

Ti perdono per non averla amata come lei si meritava. Ti perdono per i tuoi silenzi. Per esserti rifugiato nel lavoro. Per non avermi sentito così tanto parte di te, da amarmi di riflesso.

Anche tu hai fatto tanto per me. Non abbastanza, è vero, ma tutto quello che potevi fare con quella gabbia che avevi nel cuore.

Cari mamma e papà,

vi perdono per avermi insegnato che l’amore non esiste.

Vi perdono e trasformo anche per voi. Oggi decido che Elisabeth crede nell’amore. Proprio ora che l’ha perso. Proprio ora che non ha speranza. E lo faccio per voi..

Imparerò l’amore e ve lo insegnerò!

 

 

 

 

Come un cuore di cristallo..

Caro “amico”,

immagina che il mio cuore sia un pezzo di cristallo integro. Liscio e rotondo.

Lo puoi tenere in mano o accarezzarlo dolcemente. Puoi persino premerlo con forza.

Resisterà.

Se però decidi di gettarlo via e romperlo, sappi che non potrai più toccarlo. Ogni suo pezzo, infatti, diventerà una lama tagliente.

Vedi caro “amico”, il mio cuore è proprio così:

Senza difese… finchè non lo spezzi!

Chissà come sarebbe..

Chissà come sarebbe la mia vita se riuscissi sempre a vedere gli errori miei e degli altri attraverso l’ottica buddista, secondo la quale ogni veleno si può trasformare in medicina. Con quanta leggerezza vivrei riuscendo ad avere in ogni istante la lucidità di questo momento, quella consapevolezza che mi riempie di gioia perché mi fa sentire che tutto ha un senso. Tutto tutto.

Come sarebbero le miei giornate se riuscissi a ricordare questo attimo di chiarezza, in cui vedo perfettamente come ogni sofferenza mi sia servita ad arrivare fino a qui?  Sentendo, come lo sento adesso, che non avrei mai potuto capire chi soffre senza attraversare la sua stessa sofferenza. Provando una gratitudine profonda e vera verso chi mi ha ferito e addirittura, sentendo che proprio quella persona è il mio più caro “buon amico”. Questo istante di vita in cui c’è davvero spazio per ognuno nel mio cuore, perché tutti sono utili alla mia crescita. Tutti tutti.

Ma so già che questo momento di illuminazione svanirà presto, risucchiato dalla routine e dalle nuove sfide di ogni giorno. So già che la prossima volta in cui quella persona farà nuovamente qualcosa che mi ferirà, scorderò tutto e dovrò ricominciare daccapo. E allora, lo scrivo. Lascio alla mia me stessa del futuro un post, uno spunto di riflessione a cui aggrapparsi quando, per l’ennesima volta, penserà di strangolare il suo ex a mani nude o di fare un gestaccio a chi la tratta male.

Eli ricorda! Siamo tutti Buddha meravigliosi. Tutti tutti.

(Anche se qualche volta non sembra!)

Il percorso è la meta

La devi attraversare, la sofferenza. Non puoi illuminare una caverna oscura senza entrarci dentro. E così ci entro. Mi lascio attraversare dal pensiero doloroso di non realizzare i miei obiettivi, la mia missione, i miei desideri. Ascolto con cura quella vocina dentro la mia testa che mi dice che non sono amabile, che non avrò mai una famiglia, che non sono capace e non farò mai il lavoro dei miei sogni.

Lo sento. Forte. Sento che non sono un Buddha meraviglioso. Lo sento e subito dopo penso che se non lo sono io, nessuno lo è. Allora non è vero niente di ciò che dice il buddismo, per esempio niente Esho Funi – non dualità di io e ambiente. E se non siamo tutti collegati, non possiamo realizzare Kosen Rufu né la nostra rivoluzione umana. Lo sento. Sento che non sono collegata a niente, non faccio parte di niente. Il mondo non ha senso.  E comincio a pensare… Aleppo – Gaza – terremoti  – tsunami -riscaldamento globale – tumori -sofferenza – stupratori seriali – assassini -torture – genocidi – bombe nucleari…

Il brainstorming della morte. Non ho speranza. Il mondo non ne ha.

A questo punto del viaggio dentro la mia oscurità, arriva il dubbio sul daimoku e mi domando perché pratico… Che senso ha combattere quando non hai nessuna possibilità di vincere? Quindi smetto. Si, smetto di recitare Nam Myoho Renghe Kyo! Mollo tutto, la pratica, i meeting, la responsabilità.

La responsabilità… quindi anche le mie giovani donne e tutte le mie compagne di fede.  Che cosa dirò loro? “Ragazze, lascio la pratica perché non c’è speranza”? Ma cosa c’è dietro questa frase? Implicitamente affermo che dovrebbero arrendersi anche loro… neanche per loro c’è speranza.

Neanche per loro c’è speranza, Eli?

Tanto vale che A. smetta di lottare per avere un figlio, che S. non si iscriva all’università? Vuoi che D. non affronti la sua paura più grande? Puoi lasciare che G. torni di nuovo a non credere nelle persone? Che tutte le altre smettano di lottare per i loro sogni?

Neanche per loro c’è speranza?

Non lo so. In certi momenti vedo la loro vittoria assoluta e in certi altri non so più niente. Mi sento persa, senza certezze.

E poi un pensiero attraversa la mia mente: so che forse fa veramente tutto schifo in questo mondo ma loro no. Io no. Forse non esiste nessuna Legge Mistica e nessuna luce che illumina l’oscurità ma ci siamo noi, dovessimo essere anche gli unici esseri umani al mondo che desiderano vincere sul male. Niente ha senso ma noi no, noi un senso ce l’abbiamo. Siamo già quello che vogliamo vedere nel mondo. E come abbiamo fatto a diventarlo, a incontrarci e a fare nostro il voto di realizzare la pace? Grazie alla pratica!

E infatti, è praticando che M.C. ha cominciato ad amarsi, ed M.M. ha vinto la paura di perdere una persona cara. E poi c’è V. che incoraggia tutti, A. che non smette di cercarsi… Tutte, grazie alla pratica, siamo sbocciate. Tutte eravamo – chi più chi meno  -corvi neri, vestiti di lamentela, e siamo diventate dei soli le une per le altre e nelle nostre famiglie, in facoltà, sul lavoro…

Anche se il daimoku non dovesse funzionare esattamente nel modo in cui spiega il Daishonin, sicuramente funziona come strumento per migliorarsi, giorno dopo giorno. Ho centinaia di prove concrete: tutti i miei compagni di fede.

Tutti noi in questi anni abbiamo maturato una compassione sana, diversa dal pietismo e ricca di empatia. Abbiamo tirato fuori la saggezza per mettere azioni coerenti con essa e con i nostri obiettivi, lottando per la felicità degli altri senza perdere di vista la nostra. E tante volte siamo stati coraggiosi nello sfidare le nostre paure, nell’affrontare i problemi o anche nel dirci le cose in faccia, litigando pure, ma nel rispetto gli uni degli altri. E siamo stati coraggiosi a guardare in faccia la nostra sofferenza. A guardare le cose di noi che non ci piacciono. A sforzarci ogni giorno di non puntare il dito fuori e di paragonarci solo ai noi stessi del passato.

Siamo stati coraggiosi a fare la nostra rivoluzione umana. Si, quella la stiamo facendo per davvero. Ma come abbiamo iniziato a farla? Perché? Perché qualcuno ci ha mostrato che era possibile farlo. E noi adesso lo stiamo mostrando ad altri. Quindi un po’ connessi lo siamo dopo tutto, no?. E se non lo dovessimo essere, forse non basta che lo vogliamo? Che lottiamo per questa unità?

E se fosse questo Kosen Rufu: il desiderio della felicità e dell’unità di tutti?

Se fosse questo non posso avere la certezza che realizzeremo la pace nel mondo, è vero. Ma non posso avere la certezza nemmeno del contrario. Si, non sento la mia buddità e forse nemmeno quella degli altri ma la voglio sentire; e se la buddità poi non dovesse esistere, proprio come esiste invece qualunque altro stato vitale, importa davvero per costruire la pace? Non basta forse il desiderio di costruirla? Dopo tutto, è stato il desiderio della mia felicità che ha spinto una persona a parlarmi della pratica e a rendermi la persona che sono, magari veramente non amabile e non capace, ma che lotta per un mondo migliore.

Se il desiderio di una sola persona è bastato a farmi combattere per anni a fianco di altre migliaia di persone per realizzare un mondo migliore, cosa può fare il desiderio di migliaia di persone? Forse la diffusione della Legge Mistica è solo la diffusione di questo desiderio di pace. Forse.. o forse no, forse esiste per davvero e non importa che io non ci creda in questo istante, perché un istante prima ci credevo e forse fra un altro ci crederò di nuovo.

Ma credere o non credere è il frutto di un pensiero razionale della mente, che per sua natura però è bugiarda, perché basa le sue considerazioni sui nostri sensi limitati. Sensi che ogni giorno ci fanno sentire con i piedi ben piantati per terra, fermi immobili, mentre invece stiamo viaggiando a migliaia di km orari su una pallina sospesa nel vuoto. Voglio basare davvero la mia vita su qualcosa di così poco affidabile e mutevole? No.

Allora decido io su cosa basarla. Decido io a cosa voglio credere. Io voglio credere nel mio maestro. Voglio credere nell’umanità. Nei miei compagni di fede. Voglio credere nella giustizia, nella pace e nella speranza. Voglio credere in Nam Myoho Renghe Kyo, consapevole che, se anche non dovesse essere altro che una bugia, comunque è l’unica bugia che finora mi ha spinto a superare i miei limiti e ogni giorno incoraggia me e altri milioni di persone a creare valore. L’unica bugia che mi ha reso una persona migliore, che mi da il modo di prendermi cura di ragazze meravigliose, l’unica che mi ha dato una meta da raggiungere e una missione da realizzare: Kosen Rufu.

Non so se vedrò mai il mondo per cui oggi io sto lottando, ma dopo tutto questo giro di pensieri credo che sia più il percorso a contare che la meta. O addirittura, che il percorso stesso sia la meta. E allora, forse, non sono nemmeno i miei obiettivi personali a contare più del continuo sforzo che sto facendo per raggiungerli, e che mi sta rendendo ogni giorno migliore del precedente.

Beh.. che dire della mia caverna oscura? Anche oggi l’ho attraversata e ne ho illuminato un pezzetto. Domani si ricomincia.

 

 

 

 

 

SENSEI

Anche nei momenti peggiori.

Anche quando mi sento sconfitta.

Anche quando penso di non farcela.

Quando tutto mi sembra senza senso. Quando non mi sento all’altezza. Quando soffro.

Anche se non ci credo.

Anche se non riesco.

Anche se piango.

Sempre. Ci sei sempre.

La mia rivoluzione umana

La responsabilità non è una carica, un titolo o un lavoro. La responsabilità è un tipo di relazione. D’amore.

Si, d’amore ma senza cuoricini e “rose e fiori”. E un amore fuori dagli schemi a cui siamo abituati, quello che proviamo solo se siamo ricambiati o se le persone si comportano bene con noi – per intenderci.

Quando ho ricevuto la responsabilità ho sofferto molto. Non mi sentivo all’altezza. Non pensavo di riuscire a sostenere le altre giovani donne. Soprattutto non credevo di riuscire a desiderare veramente la felicità di tutte e non solo delle giovani donne a cui già volevo bene.

E’ stata una grande lotta contro la mia oscurità. Ogni giovane donna all’improvviso è diventata uno specchio che rifletteva qualcosa di me, bella o brutta.

Ricordo ancora la mia prima visita a casa, quando ancora non ero neanche stata nominata. Uscii da casa di Delia felicissima perché ero riuscita ad incoraggiarla sull’amore. (Io? Ahahuahuaha)

La seconda visita a casa invece fu un fallimento. Alessia, una giovane donna appena trasferitasi da Firenze, che come prima cosa mi disse: “Ascolta Elisabeth, io e te non saremo mai amiche e io non voglio fare attività qua a Pisa, voglio tornare a Firenze quindi non voglio creare legami.”. Sul momento fu una grande sofferenza, anche se non le diedi modo di accorgersene. Tornai a casa e cominciai a fare daimoku per alleviare quella sofferenza, finché non arrivò la prima illuminazione. Io ero la sua responsabile, non dovevo recitare per non provare sofferenza ma per la sua felicità, e se la sua felicità era non creare legami a Pisa e tornare a Firenze, io l’avrei sostenuta. Adesso è una delle mie più care amiche e sta facendo una rivoluzione umana incredibile, proprio qui a Pisa.

Col tempo alcune cose sono diventate più facili, altre si sono complicate ma ben presto sono riuscita a sentirmi una vera responsabile. E proprio quando ho sentito questa grande soddisfazione è arrivata la sfida più grande di tutte.

Essere la responsabile anche di persone che non fanno parte della mia vita, che non rispondono ai miei messaggi o non mi salutano. Persone a cui non sto simpatica o che non mi stanno simpatiche.

La prima volta è successo questa estate. Riuscire ad accogliere come qualsiasi altra giovane donna, durante un turno di protezione, una giovane donna che mi aveva ferito. Questa era la sfida da byakuren e responsabile. Vorrei poter dire che non è stata una sofferenza ma non è così. Dal momento in cui seppi che a quel turno avrei dovuto proteggere anche lei, un dolore incredibile si impossessò di me. Il dolore di doverla vedere e di condividere i miei compagni di fede, il dolore del senso di colpa per non riuscire a desiderare la sua felicità, il dolore di non sentirmi all’altezza della situazione, quello di non provare più felicità nel fare attività. Non ricordo quanto daimoku feci, ma ricordo che il giorno stesso del meeting recitai per 6 ore di fila senza sentire nessun miglioramento. Mi sentivo sconfitta. Il viaggio in macchina fu una sofferenza indicibile, ogni dosso sulla strada sembrava una pugnalata al cuore.

Eppure, appena misi il piede a terra mi sentii leggera e felice. Incredibilmente percepii la temporaneità di quella sofferenza. Pensai “da qui a qualche mese questo dolore sarà solo un ricordo, ma la sua vita ha un valore che durerà in eterno e se comincerà a praticare anche lei contribuirà a Kosen Rufu per sempre”. L’accolsi con un sorriso sincero e puro,  che la colpì. Aveva una faccia stordita ma ben presto si rilassò e per tutta la serata fu molto carina con me. Io ero felicissima. E mi sentivo orgogliosa di me, “una donna dal rispetto di sé illimitato” proprio come l’obiettivo che avevo stabilito per quel turno,  due settimane prima quando ancora non sapevo che lei avrebbe partecipato.

Da lì in poi molte altre volte mi sono dovuta sfidare nella responsabilità. Continuare a recitare per la ragazza che mi da sempre buca, quella che non mi risponde mai, quella che nemmeno mi parla e così via. Ma ci sono anche le migliaia di volte in cui mi vorrei arrendere e mi scrive una giovane donna disperata, che vuole smettere di lottare, e proprio dare l’esempio a lei mi lancia in orbita come un razzo; oppure ci sono le volte in cui ricevo messaggi in cui mi scrive una giovane donna che non riusciva a trasformare niente e finalmente ce l’ha fatta. Mi ringrazia per il sostegno e mi sembra che tutto quello che ho  attraversato sia servito giusto per sostenere lei.

Sono più le soddisfazioni. Sempre.
Anche quando non ho un bel rapporto con una giovane donna è esattamente la sfida di cui ho bisogno. Mi fa vedere proprio quella cosa di me che mi ostino a non guardare e quando finalmente prendo coraggio e affronto quella sofferenza che in realtà è solo mia, smetto di soffrire, riesco a recitare con tutto il cuore per quella persona e la maggior parte delle volte risolvo. E quando non risolvo sono serena, perché sento che io ho fatto il mio pezzo di strada e devo dare modo anche a lei di fare il suo. Con i suoi tempi.

[…]

Non è un caso che abbia sentito questo grande desiderio di scriverti proprio oggi che c’è l’ultimo meeting giovani e l’argomento è proprio la rivoluzione umana nella quotidianità. Non c’è niente che mi faccia fare la mia Rivoluzione Umana più della responsabilità.
Ogni giorno faccio un’esperienza. Ogni giorno sono quasi “costretta” a mettermi davanti al Gohonzon, perché se non mi chiama una giovane donna che vuole recitare con me, di sicuro ce n’è un’altra che sta male e vuole smettere di praticare oppure un’altra che mi manda l’incoraggiamento giusto oppure quella che mi fa stare male perché mi ignora. E poi quella per cui ancora non riesco a desiderare la felicità e quella invece che sta facendo un’esperienza allucinante. Ognuna di loro, ognuna è meravigliosa e ognuna è nel mio daimoku e questa cosa è più forte di un litigio, di un’amicizia, di una differenza di opinioni e di qualsiasi cosa temporanea e impermanente che esiste nella mia vita. Questa cosa è eterna. È il centro di gravità della mia vita e va di pari passo con la pratica. È la mia rivoluzione umana. E la volevo condividere con te.

L’ultimo consiglio

Prima si smette di sbagliare e poi si chiede scusa. Prima si capisce l’errore e poi si aspetta il perdono.
Bisogna mettere azioni nuove per ricevere effetti diversi.

Non puoi spiccare il volo se hai paura delle altezze.
Non esiste vittoria senza sfida, né coraggio senza paura.
Allo stesso modo non potrai mai diventare la persona che vuoi essere se continuerai ad avere paura di affrontare quello che sei adesso.

Ogni grande viaggio inizia da un unico piccolo passo in avanti.
Più rimandi quel passo, più resterai lontano dalla meta.

Succede solo ciò che deve succedere

La tentazione c’è.

La tentazione di rinnegare tutto quello che hai fatto quando i risultati non corrispondono a quello che ti aspettavi. Di rimpiangere il cuore che hai riaperto, la mano che hai porto e la compassione con la quale hai accolto una persona che ti aveva già ferito più di una volta.

Quella tentazione è la tua oscurità che ti dice “hai sbagliato, come sempre!”, è la voglia di non soffrire e il rimorso di aver permesso a qualcuno di farti di nuovo del male.

La tentazione c’è.

Ma c’è anche altro.

C’è il sentirsi orgogliosi di aver agito e non RE-agito. La consapevolezza che si da non per ricevere. La bellezza di essere una persona che non porta rancore e non rincorre la vendetta. Che continua a credere nella bontà degli altri, nonostante tutto.

Adesso è arrivato il momento di proteggersi, si. Ma senza odiarsi per l’errore di giudizio fatto, senza recriminare su ciò che è stato.

Succede solo ciò che deve succedere. Eh si, perché c’è anche questa.. la fiducia nella vita, che ti fa affrontare le sfide giuste nel momento in cui hai le capacità per superarle e vincerle.

 

 

 

 

 

 

Lascia andare

Certe volte è più forte di te il voler aprire gli occhi delle persone, volergli mostrare la tua verità, il tuo mondo.

Oppure quanto è forte il pensiero che se la persona che ti ferisce riuscisse a capire che ti sta ferendo, smetterebbe.

Ci sono pensieri, credenze e impulsi che non devi seguire perché non sono costruttivi, non lasciano spazio per altre cose, più importanti.

Come per esempio, scegliere persone che hanno già gli occhi aperti – anzi spalancati – sul tuo mondo. Persone che non hanno bisogno di capire come non ferirti perché sono esattamente come te, sentono come te, soffrono come te.

E allora devi rifare quel piccolo sforzo che fai ogni volta..

Lasciar andare.

Quel cammino tra l’inizio e la fine.

Non mi piacciono gli addii, i finali e i “vissero felici e contenti”. Non amo neanche i nuovi inizi, i cambiamenti o le grandi rivoluzioni.

Mi piace cosa sta in mezzo. Il cammino tra l’inizio e la fine. Adoro la quotidianità, la routine. Il sentirmi a casa. Mi interessa più il processo che il risultato.

Ho sempre fatto il salto quando era necessario buttarsi. Spicco il volo ogni volta che serve ma non vedo l’ora di atterrare e tenere di nuovo i piedi ben piantati per terra. Le trasformazioni mi spaventano. Mi terrorizza quello che non conosco. Eppure non mi sono mai tirata indietro.

In trentun anni ho vissuto in otto città, in quattro nazioni di tre continenti diversi. Ho fatto dieci traslochi. Ho cambiato facoltà due volte. Lavoro otto. Ho avuto diversi fidanzati e fidanzate. Ho convissuto per sei anni e ho scampato il matrimonio per un pelo. Mi sono buttata con il paracadute da quindici mila piedi e sono rotolata da una collina, dentro una palla di gomma. Ho visitato quasi venti paesi e ho assaggiato ventitré tipi di cucina diversi. Sono stata cristiana per quattordici anni, agnostica per dieci e sono buddista da sette. Ho imparato tre lingue diverse dalla mia e ho iniziato a studiare canto e chitarra a trentun anni.

Ho fatto e cambiato così tante cose che mi sembra di aver vissuto mille vite. Chi mi conosce non può credere che io abbia paura dell’ignoto; che anche io abbia difficoltà a lasciare la mia zona di comfort. Eppure è proprio così. Ma allora perché sono riuscita a fare tutto quello che ho fatto? Perché ho abbandonato le mie certezze e sono riuscita a vincere la paura di perdere tutto? La paura di sbagliare, di cambiare, di stare da sola?

La verità è che ho avuto un unico vantaggio nella mia vita. Un unico espediente che mi ha portato ad uscire dal guscio protettivo dell’abitudine e della familiarità: la sofferenza.

Si, è stata la grande sofferenza che ho provato fin da piccola a spingermi alla ricerca continua di me stessa. Il vuoto che ho nel petto da quando ho memoria di me è stato il motore più potente della mia rivoluzione umana e lo è tutt’ora.

La depressione di cui ho sofferto in adolescenza è stata la mia via d’uscita da un percorso già scritto per me, dalla società in cui ero cresciuta: un diploma, forse una laurea – giusto per poterla sfoggiare con i compaesani – e certamente un lavoro vicino casa fino al matrimonio con il primo amore, coronato da una o più gravidanze. Questo era il futuro che mi aspettavo. Che tutti si aspettavano da me. Il futuro che credevo di volere. Ma la vita aveva altro in serbo per me.

Solo che è difficile abbandonare le aspettative, i sogni da bambina e tutto ciò che ci è familiare. E’ dura percorrere strade non asfaltate, spesso piene di dossi e pericoli. Scegliere il cammino più difficile non è semplice. Allora, proprio come una madre compassionevole sgrida il figlio quando sbaglia, la vita mi ha dato una bella spinta. Una nuova partenza, azzerando tutto. Si perché come dice una mia cara amica, la depressione è uno zero dell’anima. O di sicuro lo è stato per me.

Da quello zero ho ricostruito tutto. Ho ricostruito me stessa, i miei sogni e il mio cammino. E per farlo ho dovuto fare il mio primo salto nel vuoto, nel mio personale buco nero. Il primo viaggio è stato il più importante: quello alla ricerca di me stessa, per guardarmi dentro e guardare in faccia il mio dolore.

Vorrei poter dire che da allora il cammino è stato in discesa, ma non è così. Ad ogni nuova partenza o sfida che mi si presenti, la paura torna sempre. Il disagio, la mancanza di equilibrio sono i miei primi compagni di viaggio. E quando la resistenza al cambiamento è troppo forte, la vita torna con i suoi scossoni compassionevoli.

E’ una lotta. Eterna. E decisamente impegnativa. Ma realizzabile. E con tempi di ripresa sempre più rapidi, con soddisfazioni sempre più grandi e passi sempre più lunghi. Adesso, ogni volta che si presenta una novità o un ostacolo che mi costringe ad uscire dal mio guscio sicuro, l’accolgo come l’ennesima opportunità che la vita mi sta dando per aprirmi al mondo, per migliorarmi e superare i miei limiti.

E infatti miglioro, supero i limiti e allargo la zona di comfort. Affronto tutto con coraggio e poi torno a casa, a godermi ciò che sta tra la fine di un’avventura e l’inizio della successiva: un buon libro sul divano e una tazza di cioccolata!

 

L’amore basta

Cosa ti spinge ad alzare la cornetta e chiamare una persona che ti ha ferito e che non senti da un anno? Cosa ti spinge a superare la paura del giudizio e del rifiuto? l’amore che provi per lei!

Non è forse l’amore per la tua famiglia e per te stessa che smuove tutte le cellule del tuo corpo per combattere una malattia mortale?

Cosa ti fa andare oltre il risentimento e la delusione per riaprire le porte del tuo cuore? solo l’amore che vorresti riavere nella tua vita!

Per cosa lotti, cercando di portare pace e giustizia?  Non è forse amore che provi per l’umanità?!

“L’amore muove il mondo”. Quante volte ho sentito questa frase in passato, e per quanti anni non ci ho mai creduto. Finché il daimoku non ha cominciato a ripulire il mio cuore dal fango della sofferenza. E per la prima volta in vita mia ho sentito un amore senza tempo e senza spazio. Ho provato il desiderio della felicità degli altri, una felicità che non deve per forza coincidere con la mia. Un amore libero da ciò che potrei ricevere in cambio.

E l’ho sentito per un uomo che non mi ricambiava; per le mie nipoti anche se lontane, in tutti i sensi; per i miei genitori a cui non perdonavo di non essere stati come li volevo; per mia sorella per la quale provavo una dipendenza affettiva; e per moltissime altre persone, fra cui il mio maestro che non ho nemmeno mai conosciuto.

Qualcuno canta “L’amore non mi basta”. Qualcuno lo pensa davvero.

Non io.

 

 

 

“Aspettare è il segreto che vorrei insegnarti”

Nuovi sogni popolano le mie notti. Nuovi sospiri riempiono le mie giornate.

Ci sono sentimenti che aspettano di essere espressi e parole che devono ancora essere sussurrate.

Nuove carezze. Nuovi gesti. Nuovi soprannomi da dare.

Ci sono nuove canzoni da cantare e note ancora da regalare.

Nuovi progetti da concretizzare. Nuovi film. Nuovi posti da vedere.

Ci sono momenti da vivere, nuovi silenzi da batticuore.

Nuovi ricordi verranno vissuti. Nuovi amici condivisi.

C’è tutta una vita nuova che ci aspetta. Impariamo ad aspettarla anche noi.

Come si aspetta il Natale.

Questo Natale. Il nostro.

 

 

 

 

 

 

Il buddismo e le fragole

Cos’è cambiato nella mia vita da quando pratico?

Beh.. chi mi conosce da tanto tempo sa perfettamente che prima di cominciare a recitare Nam Myoho Renghe Kyo ero una persona molto diversa da oggi.

Prima di tutto sono sempre stata molto empatica. Purtroppo ero “malata di empatia”. Non riuscivo a gestirla, non riuscivo a incanalarla verso la creazione di valore. Nella maggior parte delle volte mi paralizzava. La sofferenza degli altri mi feriva e basta. Oggi non è più così. Grazie al daimoku quella sofferenza è diventata il mio motore. Quando arriva, mi metto davanti al Gohonzon e ridetermino di vincere nella vita per me e per gli altri. Inoltre, la mia empatia si fermava al sentire le sofferenze degli altri. Ma le gioie? Niente! Pur avendo avuto la fortuna di non essere mai stata una persona invidiosa, mi mancava qualcosa.. non riuscivo a gioire delle vittorie altrui. Oggi faccio mia la felicità degli altri. Ho moltiplicato in modo esponenziale le mie vittorie, includendo quelle degli altri nella mia.

Un altro cambiamento fondamentale è stata la gratitudine. Prima di cominciare questa meravigliosa pratica il mio soprannome sarebbe potuto tranquillamente essere “Miss Lamentela”. Ero un corvo nero, una vittima del mondo. L’unica che aveva veramente sofferto. Si è vero, ho sofferto.. ma mi aiutava in qualche modo lamentarmi in continuazione? No di certo! Ottenevo solo il risultato di appesantire gli altri. Oggi invece sono grata. Sono grata di vivere, di poter vedere il sole, di aver studiato, di avere degli amici.. di tutto. La gratitudine è l’antidoto alla lamentela. Vivere con gratitudine significa avere sempre un motivo per gioire anziché uno per lamentarsi.

Il terzo cambiamento è per me il più soddisfacente. Studio gestione creativa dei conflitti, disarmo interiore e tutta questa roba da “pacifisti” da quasi dieci anni ormai. Ho sempre creduto profondamente nella nonviolenza e in tutto ciò che ho studiato ma mai sono riuscita a metterlo in pratica come ora. Prima del buddismo erano dei principi bellissimi a cui aspirare. Ma nella concretezza volevo distruggere chi mi feriva. Oggi se qualcuno mi ferisce prima penso di volerlo morto o quantomeno sofferente (meglio se anche sanguinante). Ok.. ci sta.. ma capisco che è il momento di fare daimoku. Una volta che comincio a recitare Nam Myoho Renghe Kyo i miei pensieri si trasformano – il mio cuore si trasforma – e passo dal volere l’infelicità di quella persona a volere la mia felicità, che non coincide con la vendetta.. poi piano piano comincio a sentire la mia vita che si apre e che include la felicità degli altri e comincio a desiderare di non comportarmi mai come quella persona, desidero di avere sempre la saggezza e la compassione necessarie per riuscire a non fare del male agli altri. Infine dopo molto (molto molto molto) daimoku riesco anche a desiderare la felicità della persona che odiavo. Semplicemente perché sento profondamente, con tutto il mio essere e non solo con la mente, che la cattiveria non esiste, è solo sofferenza non accolta e se quella persona mi ha fatto del male, lo ha fatto a causa della sua infelicità e non a causa mia. E lo ha fatto nella sua vita.. non nella mia.

Basterebbero questi tre benefici invisibili della pratica a farmi continuare su questa strada per l’eternità ma in realtà i benefici che derivano dal Sutra del Loto sono infiniti. Davvero.

L’essere diventata una persona che non si arrende mai davanti all’impossibile. Vedere gli ostacoli come opportunità. Potersi prendere cura delle persone. Realizzare prove concrete…

Potrei continuare per altri 10 post ad elencare come la mia vita sia cambiata in meglio ma la verità è che sarebbe come spiegare che sapore ha una fragola, a qualcuno che non l’ha mai provata. Bisogna assaggiarla per conoscerne il sapore. Ecco, il buddismo è come la fragola più gustosa che abbia mai assaggiato.

Provare per credere!

Il super potere che abbiamo tutti

Tutti noi abbiamo un super potere anche se non sappiamo di averlo.

No, non è uno di quelli su cui si basano le storie di supereroi. Non possiamo volare, né leggere nel pensiero.

Il nostro super potere libera. Prima di tutto libera i cuori incatenati dalla rabbia. Il nostro e quello degli altri. E illumina le vite delle persone attorno a noi. Ha un effetto benefico, salutare. Guarisce le anime.

Il nostro super potere si chiama “Perdono”.

Anche io non sapevo di possederlo finché non ho rivisto il mio ex, la persona che mi ha usato più di tutte, che mi ha deluso e mentito più di tutte e che mi ha buttato via quando non gli servivo. Il giorno in cui ho deciso che sarebbe uscito per sempre dalla mia vita, avevo giurato a me stessa che gli avrei fatto sapere cosa penso veramente di lui. E invece quando me lo sono trovata davanti, l’ho guardato e ho capito che ero libera – e volevo liberare anche lui – da quello che mi aveva fatto. E tutto ciò che è uscito dalla mia bocca è stato solo un augurio per il futuro.

Il perdono ha ripulito la mia vita sporcata dall’inganno e dall’ambiguità. E la sua vita sporcata da quel tipo di sofferenza che ruba l’empatia e trasforma in persone avide e meschine. Il perdono salva dalla propria oscurità e da quella degli altri.

Pianta semi dentro le persone, che germogliando trasformeranno l’anidride carbonica dell’oscurità fondamentale nell’ossigeno della compassione. Un respiro per l’anima.

Ho un super potere e non sapevo di averlo. Ho un super potere e lo userò per sempre.

Grazie vita.

Grazie

Ci sono dei “grazie” che sono come il buon vino o come la frutta: hanno bisogno di tempo per maturare.
Dei “grazie” che non possono essere sussurati all’orecchio; hanno bisogno di essere gridati fuori dal cuore.
Li devi anche scrivere affinchè vengano ricordati, e con la maiuscola.
Ad esempio il “GRAZIE” per avermi fatto conoscere l’amore. Quello vero, senza attaccamenti o dubbi. Quello che il cuore ti batte ma non per paura e lo stomaco è sottosopra ma non per la rabbia. L’amore delle favole.. senza violenza e senza inganno.
Il “GRAZIE” di essere l’unica storia d’amore pulita della mia vita. Il “GRAZIE” di avermi dimostrato che ciò è possibile.
Il “GRAZIE” di esserci sempre. Il “GRAZIE” per i ricordi belli. Solo quelli.
E poi non meno importante degli altri.. il “GRAZIE” di essere il mio migliore amico.

Quindi
GRAZIEEEEEEE!!!!!!!!!!

Che bella parola..

Addio Piccolo Re

E poi succede che un giorno ti trovi ad aprire una porta, sperando con tutto il tuo cuore che dietro di essa ci sia ancora la vita. E poi succede che la apri e la vita come la ricordavi non c’è. Al suo posto trovi un corpicino che accarezzi piangendo, anche se sai che chi ci abitava dentro non c’é più.
È difficile accettare che la morte fa parte della vita e che non puoi proteggere dalla sofferenza chi ami. Nello spazio di pochi secondi cambia tutto e tutto resta uguale.
Sai che non ci sono parole che possano accarezzare il cuore e che l’unica cosa che puoi fare è aprire il butsudan e metterti lì di fronte, a piangere via il dolore e il senso di impotenza.
Qualcuno ti dirà “Era solo un animale”, perchè di certo quel qualcuno non ha avuto la fortuna di avere per compagno di vita un piccolo batuffolo che si avvicina sempre mentre piangi, che riempie il cuore e le giornate.
Non sono mai solo animali. Ogni essere vivente è preziosissimo ed è prezioso l’amore che vi siete scambiati.
Ed è quello ciò che resta. L’amore vince sempre.. anche sulla morte.
Grazie piccolo re per tutte le volte che hai reso felice la mia amica e anche per tutte le volte che mi hai consolato mentre piangevo.
Addio Artù, ci rivediamo sul picco dell’Aquila!

Un post-it nel cuore

Non ricordo quando l’ho sentito per la prima volta, ma la prima volta di cui ne ho un ricordo avevo all’incirca sette anni. Era mattina presto ed ero in bagno; mi stavo preparando per andare a scuola. All’improvviso sentii un vuoto all’altezza del petto. Non era una fitta. Non era un dolore. Era il niente. Una voragine nel cuore che ingoiava tutto ciò che mi stava attorno. Lo conoscevo già, perché non mi spaventai. Poi arrivò mia sorella e il vuoto si riempì di lei.

Sono passati ventiquattro anni da allora e continuo a sentirlo e a riempirlo di persone, esperienze, libri.. vita insomma. Solo che i vuoti non si riempiono, i vuoti divorano, non si saziano mai.

E tornano sempre. Tornano mentre stai ridendo o mentre stai preparando la colazione. Mentre fai l’amore o litighi con qualcuno. Tornano quando non te li aspetti o quando li senti arrivare. Tornano mentre sogni e soprattutto durante gli incubi.

Ognuno di noi può averli oppure no, e non tutti con la stessa forma. Alcuni poi si mascherano da dipendenza di alcol o di droga. Altri ancora sembrano desiderio di fama e denaro. Ci sono vuoti a forma di cuore e altri a forma di sesso. Ce ne sono di tutti i tipi.

Il mio cambia sempre forma: un giorno è il ricordo di un’amica, che ha dovuto dire addio al padre, il giorno dopo la foto di una madre che piange il figlio morto sotto una bomba. Ieri erano 297 anime sepolte sotto cumuli di pietre e oggi la disperazione di una donna che si è tolta la vita. Ci sono volte in cui assume tante forme in una e volte in cui si nasconde bene, così bene che sembra andato via, ma nella sostanza rimane sempre e sempre uguale: la sofferenza degli altri.

La sofferenza degli altri mi circonda e mi attraversa, togliendomi il respiro e la voglia di vivere. Mi fa dubitare del senso della vita e mi fa desiderare la morte.

E’ così da quando ho memoria di me. E’ così finché non comincio a recitare Nam Myoho Renghe Kyo.

Adesso, quando il vuoto arriva e tutto attorno a me comincia a perdere i contorni, prima che il mio mondo svanisca risucchiato dal buco nero che ho nel petto, corro davanti al Gohonzon e pronuncio Nam Myoho Renghe Kyo.

E lì, in quel momento, decido di dare un senso a quel vuoto.

Sento il dolore degli altri perché sono parte di un tutto. Lo sento perché è la mia missione, perché sono un Bodhisattva della terra. Perché è mio. Decido ogni volta che lo devo attraversare perché solo così posso veramente capire e sostenere chi soffre.

Questa sofferenza è il mio motore. Non c’è niente che mi faccia premere l’acceleratore della vita come questo vuoto, che mi spinga a ricercare dentro di me il potenziale infinito di cui parla il Buddha. Che mi faccia lottare contro l’ingiustizia, contro il male. Niente mi fa desiderare di più di essere migliore di come sono.

E ogni volta che sento questo vuoto, ridetermino davanti al Gohonzon che crescerò più in fretta, amerò più a fondo, vivrò con più gratitudine e farò la mia rivoluzione umana per la mia felicità e per Kosen Rufu.

Per sostenere gli altri bisogna sempre ripartire da se stessi. Da qui e da ora.

E così oggi accolgo questo vuoto e decido ancora una volta. Decido che non ho più un buco da riempire ma uno spazio dove poter costruire le fondamenta di Kosen Rufu nella mia vita. Decido che anche se dovessi rimanere sola in questa lotta, realizzerò il voto del mio maestro. Decido  che questa sofferenza è solo un promemoria dall’infinito passato, un post-it attaccato al cuore che mi ricorda perché sono nata, perché proprio qui in questo mondo di saha:

Kosen Rufu.

Io vivo per Kosen Rufu!

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Quello che già sai

Si impara sbagliando.

A camminare, cadendo.

Ad essere grati, soffrendo.

Si impara a vivere, sognando

e ad amare, lottando. 

E poi con il passare del tempo sbagli più spesso, cadi sempre più in basso e soffri fin dentro le ossa. Solo così impari a sognare il domani e a lottare come se non ci fosse. 

La vita ti insegna tutto ciò di cui hai bisogno nel momento cruciale. Arrivato a quel punto devi solo ricordare quello che già sai:

che come sempre ce la farai..

 

 

 

Chiunque tu sia, se stai pensando di voler morire e stai leggendo questo post vuol dire che hai cercato su internet uno spiraglio, come ho fatto io tante volte in passato.

Ero solo una ragazzina quando tentai di suicidarmi. Conosco perfettamente il vuoto che senti dentro, il senso di soffocamento.. quel peso sul petto che sembra non andare mai via. So cosa significa sentirsi sola, esclusa, non meritevole di amore. So che sembra un incubo senza fine. Una strada interrotta senza via d’uscita.

Ma non è così. Ti prego scrivimi. Ti risponderò. Ti chiamerò. Ti sosterrò. Ti mostrerò che c’è una soluzione. Dammi un’opportunità. Datti un’opportunità. Non ti deluderò, te lo prometto.

Questa è la mia mail: elisabeth_peace@hotmail.com

Questo dolore è la mia missione

Seduta sul letto, con il volto rigato di lacrime. Così mi sorprende mia sorella. “Che c’è?”, mi chiede.

“280.” le rispondo. “Sono 280 i morti (ora 291).” E mentre lo dico sento un conato di dolore che mi sale fino alla gola ed esplode in un altro pianto.

Mi guarda triste e mi dice: “Non leggere più niente”.

Non mi capisce. Non riesce a spiegarsi perché continuo a leggere le notizie sul terremoto, io che non ho nemmeno un amico lì e neanche mi trovo in Italia.

Ed forse è proprio questo il motivo. Vorrei essere lì. Vorrei poter dare il mio contributo.

Ho bisogno di questo. Ho studiato tutta la vita per questo. E ho bisogno di sentirlo tutto il dolore. Fino dentro le ossa.

Quando ero ragazzina scappavo dalla mia grande empatia. Stavo troppo male, tanto da diventare schiava di quel demone che chiamano ‘depressione’.

Stavo così male da pesare 38 kili e non avevo la forza di immaginare nemmeno la mia di felicità, figuriamoci quella dell’umanità intera. Finché un giorno il mio psicologo mi disse: “Elisabeth, se sta così male per l’umanità perché non fa qualcosa per aiutarla?”.

Una semplice domanda, solo una semplice domanda che però mi ha dato la forza di abbandonare quel ruolo di vittima che mi ero costruita negli anni.

Il solo pensiero di poter fare qualcosa per cambiare in meglio il mondo mi ha lanciato in orbita. Su quel pensiero ho costruito tutta la mia vita. Ed è quel pensiero che mi permette di guardare e sentire il dolore degli altri, senza lasciarmi schiacciare da esso. Perché non è la sofferenza degli altri che ti opprime ma il senso di impotenza. E io non mi sento più impotente.

Adesso sentire quel dolore non mi spaventa. Anzi, mi aiuta a ridimensionare le mie personali sofferenze. Mi fa sentire partecipe. Mi fa sentire che ci tengo, che ho una missione nella vita. Mi da la spinta per studiare e approfondire per l’esame di dottorato. Mi ricorda perché voglio fare il dottorato, perché proprio una ricerca sull’Educazione in Emergenza. Non per trovare un lavoro ma per creare opportunità di cambiamento lì dove altri vedono solo tragedia e perdita. E per sentire che tutto questo dolore  ha un senso più grande, che nel vuoto creato da questa tragedia, c’è uno spazio nuovo dove possiamo costruire. Ri-costruire. Con nuove fondamenta, riuscendo a creare valore dalla crisi, addirittura facendone emergere il potenziale positivo. Proprio come nei due caratteri dell’ideogramma cinese che rappresentano il termine “crisi” e che significano uno “pericolo” e l’altro “opportunità”.

Seduta sul letto, con il volto rigato di lacrime. Così, esattamente come sono, con questa grande sofferenza negli occhi e nel cuore, ridetermino che questo dolore è la mia missione.

 

 

 

La rincorsa

C’erano solo sogni infranti in quel maledetto cassetto. Le faceva male aprirlo e guardarci dentro eppure ogni tanto doveva farlo per riporvi dentro nuovi sogni o meglio ciò che di essi ne restava. Quel giorno rimase lì a guardarlo per un po’ e la vocina nella sua testa cominciò la solita cantilena: “Eccoti di nuovo qui. Hai visto che avevi ragione? Non sei nessuno e nessuno ti ama.”

Odiava quella vocina e solitamente cercava di non ascoltarla, parlandoci sopra, ascoltando musica o chiamando un’amica per farsi distrarre. Quel giorno, invece, rimase lì immobile e in silenzio. Era la sua oscurità, voleva ascoltarla fino in fondo: “Sei sempre la stessa, credevi di avercela fatta e guardati adesso..”

Ad un tratto si alzò dalla sedia, stava per allontanarsi dal cassetto quando la vocina le gridò: “Lo vedi! Sei tornata indietro!”

Con uno scatto deciso richiuse il cassetto e sorridendo rispose: “Ti sbagli. Non sono tornata indietro.. sto solo prendendo la rincorsa”.

 

 

 

 

 

 

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E ce la farai.

Ce la farai anche se le ombre tornano e i vuoti non si riempiono.
Ce la farai anche se la paura ti paralizza. Anche se il tempo smette di scorrere quando il passato si riaffaccia sul tuo presente.
Ce la farai perché ce l’hai sempre fatta e una volta che hai vinto la prima volta sai che potrai sempre rifarlo.
Ce la farai perché hai ancora sogni da realizzare e posti da vedere.
Ce la farai perché hai un cuore forte, un po’ ammaccato si, ma che resiste.
Ce la farai perché ami nonostante tutto. Ti fidi nonostante tutto. Ti apri nonostante tutto.
Ce la farai perché hai fatto crescere radici dove c’era cemento.

Ce la farai. E non solo per te.

 

Un coraggio che non sai di avere..

Jpeg

 

Un uomo stupra una donna per dimostrare di avere un potere che non ha. Non c’è nessuna virilità nello stupro. Né coraggio. Non ci vuole neanche molta forza per stuprare una donna.

Ce ne vuole molta di più per provare compassione per l’uomo che ti ha stuprato. Ed è esattamente nell’attimo in cui riesci a farlo che ti liberi dalla sua presa. Fino a quel momento lui ha continuato a stuprarti nella tua mente.

L’unica cosa che puoi fare, per privarlo del potere che credi lui abbia su di te, è perdonarlo. E il tuo perdono lo salverà o lo distruggerà. Non ci sono vie di mezzo.

L’uomo stupra per dimostrare di avere un potere che non ha. La donna va avanti, dimostrando un coraggio che non sapeva di avere.

Defensa femenina

“Defensa femenina”. A sentirla pronunciare fa un po’ ridere però a praticarla ci si sente più sicure anche dopo poco tempo. Almeno per me è così. E poi io sono una di quelle persone che quando si impegnano in qualcosa di nuovo vogliono subito sperimentarne  gli effetti.. tanto che stavo cominciando a pensare a come provocare una rissa per poi difendermi.

Poi ho optato per un modo meno pericoloso di esprimere questo nuovo interesse.. e questo è il risultato.

Jpeg

La felicità nelle piccole cose

Voglio una vita piena di piccoli momenti e piccole cose che mi riscaldino il cuore quando fuori c’è freddo o peggio quando il freddo è dentro.

Voglio pillole di felicità da ingerire quando la vita si ammala, scatti fotografici da rivedere quando la nostalgia fa i capricci.

Come quel pensiero che ti culla mentre ti addormenti o il canto dei grilli d’estate. 

Il raggio di sole che si fa strada in un cielo di grigio.

Lo guardo di complicità con un’amica.

Gli occhi di uno sconosciuto che ti sorridono quando passeggi in spiaggia.

Un certo profumo che ti sorprende mentre cammini indaffarata o la nuova melodia che hai in testa da qualche giorno. 

Il ricordo nitido di un luogo che non sai dov’è né quando ci sei stata.

Un regalo inaspettato.

Il primo batticuore.

La richiesta di amicizia su Facebook di una persona a cui vuoi bene o un “pollice su” che non ti aspettavi.

La brezza del mare sul viso.

Una risata improvvisa o la prima volta che provi a fare qualcosa di diverso dal solito. 

L’emozione che si prova quando sfiori la mano di qualcuno per sbaglio.

La sensazione della sabbia sotto i piedi scalzi e il cinguettio degli uccelli di prima mattina.

Lo spavento che provi quando abbaia un cane, da dietro un cancello.

Un sapore nuovo.

Il solletico.

Cos’altro?  Mmm..

Ci penso e vi faccio sapere!

 

 

 

 

 

 

 

Si fa quel che si può

La cosa più difficile quando torni ad essere single non è trovare un uomo. Per quello basta mettere un piede fuori di casa e il radar che hanno i “pesci-cazzo” segnalerà loro che ti hanno rigettata nel loro mare. E così ricompaiono ex fidanzati, ex quasi trombamici, ex un po’ di ogni categoria. Purtroppo anche gli ex stalker.. ma questa è un’altra storia o meglio un altro post.

La cosa difficile è trovare la giusta via di mezzo fra quelli che si vogliono solo infilare fra i tuoi slip – fregandosene altamente di cosa ti piace e cosa, invece, ti spegne completamente – e quelli che si innamorano di te al primo appuntamento.

Tipicamente, i primi li puoi individuare ad occhio nudo: bellocci, muscolosi, con le maniche corte anche d’inverno e gli occhiali da sole anche al buio.

I secondi, invece, sono ragazzi carini ma assolutamente ordinari. Non mostrano alcun segno che ti possa mettere in guardia!

I primi vengono smascherati quasi subito e non solo per l’aspetto estetico. Spesso anche grazie a risposte come “O bimba io a letto nn mi faccio comandà” alla più che leggittima richiesta di non usare il tuo clitoride come fosse un pulsante del flipper. Ed è li che pensi fra te e te: “fidati! Non sono pregiudizi.. gli occhiali da sole in discoteca sono proprio evidenza empirica!”.

Per i secondi invece la cosa si complica non poco.

Passano dei giorni prima che si manifesti qualche sintomo del classico disturbo da “innamoramento cronico”. Nel frattempo tu ti affezioni e loro si convincono che il tuo “Non voglio una storia d’amore” significa in realtà “Sono ferita e ho paura di soffrire, ti prego dimostrami che sei diverso”. E da lì inizia la lunga e inevitabile discesa nel girone dei “principi in cerca di donzelle da salvare”.

Si tratta di uomini che hanno il bisogno viscerale di sentirsi cavalieri senza macchia. Il che non sarebbe un problema di per sé.. i problemi nascono quando poco poco mostri loro che non hai bisogno di essere salvata o meglio hai bisogno di salvarti da sola. Li scattano diversi meccanismi e puoi assistere a scenette da romanzi d’amore o peggio alla recitazione di poesie stile Amor Cortese, da farsi venire il diabete..

E poi certe volte credi di aver trovato la famosa via di mezzo fra i bellocci senza sapore e i cavalieri erranti ma ti ritrovi dopo mesi e mesi a scoprire l’amara verità.. che ti è capitata una categoria ancora più ridicola: i narcisi mascherati da umili, ovvero quelli  che fingono di sentirsi poco attraenti per farsi ripetere quanto li trovi belli. Quelli che ti piacciono e di cui ti potresti o ti vorresti innamorare ma che ti fanno cadere le braccia a terra quando capisci quanta arroganza hanno nascosto fin troppo bene. Quelli che hai frequentato per mesi, affezionandoti, diventando quasi dipendente dal modo in cui ti hanno fatto sentire capita e coccolata, finché col tempo, tra i vari tira e molla, le volte in cui ti dicono cose orribili e quelle in cui ti chiamano “tesoro”,  realizzi quanto dietro al loro modo di fare ci sia il bisogno di sentirsi desiderati. Capisci che ti tengono legata a sé per orgoglio. E capisci che sono troppo impegnati ad amare se stessi per potersi innamorare di te. E allora non ti resta che sorridere con un po’ di amarezza e augurarti che non ti ricapiti.

Si fa quel che si può.. quando hai 31 anni e tanta voglia di sentirti viva e amabile ti capita di inciampare molte volte nel percorso verso te stessa.

A me è capitato spesso.. cercherò di centrarmi e stare più attenta. Nel frattempo, come sempre, ci penso e vi faccio sapere…

Le avventure di Dolceneve (prima puntata)

 

Jpeg

 

C’era una volta una bambina che credeva nelle favole. Il suo nome era Dolceneve. Non era una bimba felice, aveva tante difficoltà ma si sentiva come le protagoniste delle fiabe. Quelle piccole principesse osteggiate da matrigne o da streghe (chissà perché nelle favole i cattivi non sono mai gli uomini) che però, rimanendo fedeli a se stesse, lottando e continuando a credere riescono sempre ad avere il loro lieto fine: il principe azzurro. La bambina cresceva fra le sofferenze ma non si abbatteva mai. Sognava e questo le bastava. Più passavano gli anni però, più in lei cresceva la consapevolezza che le fiabe sono solo fiabe e che i principi azzurri sono orchi mascherati. Diventata donna in mezzo alle battaglie, si era trasformata, da principessa bisognosa di essere salvata, in cavaliere che salva le altre principesse. Era sicura che lei non sarebbe mai inciampata in un orco mascherato. Un giorno, dopo una strenua lotta per salvare la sorella dalle acque stagnanti della violenza, stanca e sfiduciata si avvicinò ad uno scoglio per appoggiarsi un secondo. Non si fermava mai, non si appoggiava mai ma quella battaglia l’aveva distrutta e pensò fra sé e sé “ora ti meriti un po’ di riposo.. e poi non ci sono orchi nei dintorni”. Una volta seduta sullo scoglio, i muscoli le si rilassarono e anche il cuore cedette alla stanchezza, cominciando a pompare lacrime fuori dagli occhi. Mentre piangeva, all’improvviso sentì un rumore provenire dallo scoglio. Si girò di scatto ma non vide nessuno. Riprese a piangere e fu a quel punto che una voce la interruppe di nuovo: “Perché piangi?” disse la voce.

Silenzio.

Non c’era nessuno ma di nuovo sentì “ti ho chiesto perché piangi?”. Non riusciva a crederci eppure quella voce proveniva proprio dallo scoglio! Dopo un po’ di tempo passato ad osservare bene in ogni angolo, per capire se fosse o no uno scherzo, Dolceneve cominciò a parlare con lo scoglio.

– “Chi sei?” provò a chiedere con esitazione.

– “Sono uno scoglio che sostiene le giovani guerriere come te.”

– “Davvero? Gli scogli fanno questo.. e come mai?”

– “Perché sono uno scoglio speciale e questa è la mia missione”.

– “Perché?” Chiese Dolceneve incuriosita.

– “Una volta ero un uomo ma, durante la mia esistenza, alcune sofferenze mi hanno trasformato in uno scoglio freddo e duro. Solo sfidandomi nel sostenere le sofferenze degli altri potrò riprendere la mia forma umana”.

Dolceneve rimase molto colpita da quella storia. Aveva sempre vissuto in un mondo di uomini-orchi e ora l’idea di un uomo-scoglio che aveva il desiderio di sostenere le donne le apriva una nuova visione.. quella di un mondo nel quale Dolceneve non avrebbe dovuto salvare le principesse rinchiuse dentro torri di soprusi o urlare in nome delle sirenette private della voce.  Questa nuova prospettiva le diede un nuovo slancio. Riprese in un secondo tutte le sue forze e si sentì più motivata che mai. Adesso sapeva dove ricaricarsi dopo ogni battaglia e così facendo avrebbe aiutato quello scoglio a tornare uomo. Insieme avrebbero costruito un nuovo mondo, fatto di donne che non hanno bisogno di essere salvate e di uomini che sanno affrontare le sofferenze senza diventare freddi e duri.

 

 

 

CV che sta per curriculum vero (work in progress)

Ho finito di studiare. Devo scrivere il curriculum vitae e cercare il Lavoro. Non che non abbia mai scritto un cv o non abbia mai cercato lavoro ma adesso devo farlo seriamente. Ok! Iniziamo da una semplice domanda: cos’è un curriculum vitae?

E’ la storia formativa e lavorativa della mia vita.. vita che ho vissuto io.. ergo niente di più facile da scrivere per me,  giusto?

No. Niente di più così lontano dalla realtà.

Innanzitutto c’è differenza  – una difficile da intuire – tra curriculum vitae e resume. Inoltre, ci sono un centinaio di tipi di curriculum: funzionale, anticronologico, creativo, americano, europeo..ecc. ecc. Infine, devi riuscire nell’arduo compito di essere sintetico (non più di due pagine) senza sembrare uno sfaticato che non ha fatto molto nella vita e senza saltare tutte le altre esperienze, come il volontariato (“molto apprezzato soprattutto nei paesi anglosassoni”), cercando contemporaneamente di riassumere le cose che hai appreso e gli obiettivi che hai raggiunto in ognuna delle esperienze che citi.

Sembra difficile?

Prova ad aggiungere il desiderio di far arrivare attraverso una semplice lettera di presentazione tutto quello che sei e che sei certa di riuscire a fare e ora dimmi se non ti sembra che fare un curriculum sia di per sé un lavoro.

E in effetti, proprio come un lavoro, richiede tempo, sforzo e volontà.. tutte cose che ho impiegato negli ultimi giorni al fine di preparare un ottimo cv da mandare a New York.

Il risultato non si avvicina nemmeno lontanamente a quello che i migliori siti internet in materia ritengono che sia un ottimo curriculum. Non è sintetico ( cinque pagine è il massimo della sintesi che sono riuscita a fare), non è creativo (non c’è nemmeno una parola colorata), non è accattivante (mi sono annoiata io stessa a leggerlo), non è funzionale (non sono riuscita a capire come caxxo si fa un curriculum funzionale!). Non è un sacco di cose insomma. Non è neanche un curriculum a parer mio.. ma piuttosto un elenco di cose che ho fatto, intervallate da parole che cercano di inserirle nella scatolina giusta (educazione, lavoro, hobbies, ecc.).

E soprattutto non è il curriculum che io vorrei scrivere o vorrei leggere se dovessi scegliere delle persone a cui affidare un lavoro.

Il mio curriculum ideale è molto diverso. Sarebbe più o meno così:

Elisabeth Di Luca

Elisabeth è il nome scelto da mia sorella. Mia sorella si chiama Palma. Già questo dimostra l’amore che provava per me, scegliendo un nome tanto diverso dal suo e da tutti i nomi scelti fino a quel momento nella mia famiglia: nomi di gente morta o in procinto di morire, nomi vecchi o da vecchi, strani e tipicamente oggetto di burle da parte dei compagni di scuola (come Palma, appunto! “E cosa sei un albero?”, “Palma de Majorca??” e così via). Nei miei studi sull’educazione, ho avuto modo di approfondire l’importanza del nome nella programmazione educativa del bambino, che tende a rimanere schiacciato o a rispettare l’aspettativa creata da quella particolare scelta. Io ho rispettato l’aspettativa. Un nome diverso da tutti quelli dati nella mia famiglia mi ha assegnato inconsciamente il compito di essere diversa dalle persone che li portavano. Compito che ho rispettato, nel bene e nel male. Pecora nera della famiglia, piena di tatuaggi e piercing, che ha fatto sesso per la prima volta a 14 anni (ovvero 10 anni prima dell’età media in cui le donne della famiglia Di Luca avevano fatto sesso fino a quel momento), che ha deciso di fare il Liceo Classico interrompendo la tradizione di iscriversi alla Ragioneria (“perché almeno hai un pezzo di carta che ti fa lavorare”) e così via..

Sempre diversa e sempre criticata. E perché ho scelto di iscrivermi all’università – “togliendo braccia per il lavoro” – e poi perché l’ho lasciata per andare a lavorare e nuovamente  quando ho lasciato il lavoro per re-iscrivermi all’università. Oggi sono felice di aver aperto la strada a tutte le altre donne della mia famiglia, che dopo di me hanno avuto nomi moderni  e non collegati a particolari tragedie familiari, che finalmente si masturbano e che quindi hanno una sessualità più sana e soprattutto un po’ più precoce, donne che si iscrivono liberamente alle scuole che più preferiscono e che sono libere di fare scelte sbagliate e cambiare idea più volte.

Di Luca è il mio cognome, quello che mi ha dato mio padre. Quando sono nata non c’era ancora la possibilità di dare anche il cognome della madre, in Italia.. figuriamoci in Sicilia. Non ho preso molto dai Di Luca ma sicuramente  ho preso il meglio. Da mio padre la voglia di lavorare. Mio padre è uno di quegli italiani che è andato a vivere 25 anni all’estero, a fare tre lavori diversi per mettere da parte i soldi necessari ad aprire un’attività in Sicilia. Dal niente ha creato un’azienda che prima della crisi andava molto più che bene. Mio nonno, invece, mi ha lasciato la nonviolenza. Nella Sicilia degli anni 40, veniva preso in giro da tutti i compaesani perché non picchiava i figli. E lui non se ne curava minimamente. Neanche con un dito, li toccava.

Via X, n. 0 Pisa

A Pisa ci sono arrivata per amore. Amore per il mio ex fidanzato che voleva tornare in Italia (vivevamo a Brisbane, in Australia) e amore per lo studio. Avevo deciso di iscrivermi all’Università e un’amica del mio ex mi parlò di Scienze per la Pace: fu amore non appena vidi il piano di studi. A Pisa mi sono sentita a casa per molti anni. Adesso però sento che è arrivato il momento di andare via, spiccare il volo.

elisabeth_diluca@hotmail.it

Questa è la mia mail “professionale” ma la mia vera mail è “elisabeth_peace@hotmail.com”. Lo è stata da sempre, sin da quando ancora si chattava su Messenger di MSN e ci volevano quattro minuti per connettersi ad internet.

380/xxxx060

Il mio numero storico, avuto con il primo cellulare passatomi da mio padre: un Motorola durato ben dieci anni.  Un cellulare che ho rimpianto, una volta rottosi, e che continuo a rimpiangere. Dopo quello, infatti, ne ho avuti altri tre in due anni, tutti di mio padre e tutti “usa e getta”. Finalmente l’anno scorso ho comprato un cellulare nuovo, touch, che ha whatsapp.. e che  va molto peggio di tutti gli altri!

…cos’altro? Mmm.. ci penso e vi faccio sapere!

Sarili

Oggi rivedendoti mi sono ricordata di questo messaggio che mi hai mandato qualche anno fa.. E mi è scappata una lacrima..

Credo di doverti un gran grazie.
Uno di quelli che non si scordano,
uno di quelli che non si perdono,
ma uno di quelli che invecchiano con te,
che con il tempo ingialliscono,
che catturano ogni odore e sfumatura della tua vita.
Che ti accompagnano nel cuore,
in ogni tuo sbaglio
o in ogni tua passione.
Non ho saputo trovarne uno
neanche tra pazzia e razionalità.
Provo a scrivertelo
in rime che non sono tali.
Grazie per avermi reso la persona che sono.

Si può soffrire senza odiare

E ci stavate quasi riuscendo. Io, vi stavo quasi permettendo di farlo. Di riempirmi di odio. Ma no, non verso i musulmani. Verso di voi, odiatori di mestiere. Odiatori per paura o per ignoranza. Odiatori per comodità o per sofferenza.

Fortunatamente ci pensano i bambini ad aiutarmi. A ricordarmi che il pericolo più grande non è il terrorismo e non sono neanche i razzisti o gli ignoranti. Il pericolo più grande è l’oscurità celata dentro il nostro cuore, sempre affamata di giudizio e di odio e sempre pronta a prendere il sopravvento. È lì che nascono i semi della guerra ed è proprio lì che vanno estirpati.

Come si fa? Ogni volta ricominciando da capo. Ogni volta partendo dall’accettare che quell’oscurità c’è. Ed è grazie ai bambini che oggi l’ho riconosciuta. Grazie al laboratorio di gestione del conflitto e da ciò che ne è emerso. Grazie al cuore di questi esserini, che sono lo specchio migliore dentro cui guardarsi, senza filtri e senza maschere.

Ed è lì, dentro il “cerchio” che ho potuto fare ciò che non riuscivo a fare da giorni. Essere me stessa. Parlare della mia tristezza. A voce alta. Parlare grazie al coraggio che mi da solo il desiderio di educarli con l’esempio e non con le chiacchiere. Educarli con la mia vita intera.

Per farlo bisogna andare fino in fondo. Essere disposti a guardarsi dentro. Non si può parlare di emozioni senza avere la forza di riconoscerle prima in noi.

E così, l’ho fatto. Mi sono guardata e ho visto la tristezza e la rabbia. E ho visto l’odio. L’ho sentito. Ma non ho avuto paura. Sapevo cosa fare. Sapevo come farlo.

Mi è bastato vivere con la mia vita ciò di cui parlo ai bambini. Ascoltare il mio corpo. Capire le mie emozioni. Esprimerle senza giudicarmi. Accettarle per trasformarle.

“Sono triste” senza nessun giudizio, senza nessuna scorciatoia o soluzione. “Si, bambini.. sono tanto triste” senza nessuno sguardo di pietà o di paura. Senza nessuna fretta di rimediare a quell’emozione “negativa”. Solo ascolto e sguardi puliti. Solo empatia.

E da quel momento in poi tutto è stato in discesa. Il disarmo interiore è un istante. Quello in cui decidi cosa ne vuoi fare del tuo dolore.

Io l’ho donato a quei bambini. Ho lasciato loro un semino.. quella sensibilità che mi rende partecipe della sofferenza del mondo, senza lasciarmi impotente. Quell’empatia che si muove come una danza: un passo dentro la sofferenza altrui e un altro indietro, dentro di te.

Loro poi decideranno se coltivare quel seme, se accettare il mio dono. In ogni caso, sanno che si può fare.. sanno che si può soffrire senza odiare.


Y ya casi lograbais tener éxito. Casi os estaba permitiendo conseguirlo: llenarme de odio. Pero no, no hacia los musulmanes. Odio hacia ustedes, odiadores profesionales. Odiadores por miedo o ignorancia. Odiadores por comodidad o por sufrimiento.

Afortunadamente, los niños me ayudan a recordar que el mayor peligro no es el terrorismo y tampoco son los racistas o los ignorantes. El peligro más grande es la oscuridad oculta dentro de nuestro corazón, siempre hambrienta de juicio y de odio, y siempre dispuesta a tomar el control. Ahí es donde nacen las semillas de la guerra y ahí es donde se deben erradicar.

¿Cómo se hace? Cada vez comenzando de nuevo. Cada vez comenzando por aceptar que hay oscuridad. Y es gracias a los niños que la he reconocido hoy. Gracias al laboratorio de gestión de conflictos y lo que surgió de él. Gracias a los corazones de estas pequeñas criaturas, que son el mejor espejo para mirarse, sin filtros ni máscaras.

Y es allí, dentro del “círculo” donde he podido hacer lo que no podía hacer en días: ser yo misma. Hablar de mi tristeza en voz alta. Hablando gracias al coraje que solo me da el deseo de educarlos con el ejemplo y no con las charlas. Educarlos con toda mi vida.

Para hacer esto tienes que ir hasta el final. Estar dispuesta a mirar hacia adentro. No podemos hablar de emociones a los niños, sin tener la fuerza para reconocerlas primero en nosotros.

Y así lo hice. Me miré y vi la tristeza y la ira. Y vi odio. Lo escuché pero no tuve miedo. Sabía qué hacer. Sabía cómo hacerlo.

Fue suficiente vivir con mi vida eso de lo que les hablo a los niños. Escuchar mi cuerpo, entendiendo mis emociones. Expresarlas sin juzgarme. Aceptarlas para transformarlas.

«Estoy triste» sin ningún juicio, sin ningún atajo o solución. «Sí peques, estoy muy triste» sin una mirada de lástima o miedo. Sin ninguna prisa por remediar esa emoción “negativa”. Solo escucha y miradas limpias. Solo empatía.

Y a partir de ese momento todo fue cuesta abajo. El desarme interno es un instante, aquello en el cual decides qué quieres hacer con tu dolor.

Yo se lo di a esos niños. Les dejé una semilla: esa sensación que me hace partícipe del sufrimiento del mundo, sin dejarme impotente. La empatía que se mueve como un paso de baile, uno hacia el sufrimiento de los demás y el otro hacia atrás, dentro de ti.

Luego decidirán si cultivar esa semilla, si aceptarán mi regalo. En cualquier caso, saben que se puede hacer. Saben que se puede sufrir sin odiar.

Anche i cactus sbocceranno

Nel 2012 ho determinato di realizzare 15 obiettivi.  Ne ho conseguiti 11. Altri 3 si stanno per realizzare.

Il 15esimo sei tu, amore mio. Credevo di averti trovato. O  forse ti ho trovato.. Non lo so. Non importa.

Il mio obiettivo iniziava così:

Voglio trovare l’amore. Voglio un uomo di buon cuore, altruista e compassionevole. Che si indigni di fronte all’ingiustizia […]. Un uomo che mi faccia venire voglia di ringraziare tutta la sofferenza che ho provato perché mi ha portato da lui.

Adesso non mi importa realizzare quell’obiettivo. Lo lascio andare. Al suo posto ne metterò un altro:

Voglio essere l’amore. Voglio essere una donna di buon cuore, altruista e compassionevole. Una donna che si indigna di fronte all’ingiustizia. Saggia e coraggiosa, che non si vergogna di mostrare le sue emozioni e i suoi sentimenti, soprattutto con te. Una donna che non vede l’ora  di averti nella sua vita e che farebbe di tutto per te e per la quale tu faresti di tutto. Una donna semplice, che ama la vita e i bambini. Ottimista. Dolce. Empatica. Forte. Che ti ama con tutte le sue forze. Che ha delle aspirazioni ma senza esserne schiava. Che non vede l’ora di costruire una vita piena di piccole cose con te. Che ti fa sentire unico. Che ti fa sentire protetto ma lasciandoti libero. Che ti stima. Una sognatrice con i piedi per terra, che adora sognare con te. Che abbraccia i principi buddisti e che pratica. Non violenta. Una donna con difetti che puoi amare. Che non ti tradirà mai. Voglio essere una donna che crede nell’amore, all’inizio anche per te e che ti insegna a crederci. Con un cuore pieno di speranza. Di fede nell’umanità. Simpatica, intelligente, che ama leggere e viaggiare. Una donna che ama parlare e soprattutto parlare con te. Una donna che ha delle passioni, di cui tu ne sei una. Una donna che ama fare l’amore con te. Con cui tu ami fare l’amore. Bella ma non vanitosa e nemmeno insicura. Che ti fa ridere. Voglio essere una compagna di vita, di viaggi, la tua migliore amica e una fantastica madre per i tuoi figli. Una donna che ti faccia venire voglia di ringraziare tutta la sofferenza che hai provato perché ti ha portato da lei.

Ti cerco da tanto amore mio, ma ho capito che prima di trovarti devo diventare io ciò che voglio che tu sia nella mia vita.

Ti prometto che lo diventerò.

Ti prometto che lotterò.

Ti prometto che se sei lui, sarò la sua primavera dopo il lungo inverno.. una primavera in cui anche i cactus che non ha curato sbocceranno.